Nella cultura americana è sempre stata viva l’esigenza di coniugare la difesa delle libertà individuali con l’uguaglianza, come dimostrano i versi di Walt Whitman, che rappresentano la più alta espressione poetica dell’ethos democratico. Tutto è per gli individui, scriveva in Presso la riva dell’Ontario azzurro, “tutto è per te, / nessuna condizione è interdetta, né solo di Dio o di altri”. Nella democrazia Whitman riconosce “In fondo a tutto, individui”. Il patto americano, scrive, “è in senso assoluto con gli individui, / il solo governo è quello che prende nota degli individui” e l’intera concezione dell’universo converge su “di un singolo individuo – precisamente su Te “.
L’identificazione whitmaniana dell’America con lo spirito democratico, condivisa da John Dewey, è stata messa in luce anche da Richard Rorty, secondo cui la democrazia era, per Whitman, una parola la cui storia “rimane ancora da scrivere, perché quella storia dev’essere ancora messa in scena”. In questa direzione Whitman incontra la filosofia hegeliana della storia, che diviene “la temporalizzazione di ciò che Platone, e ancora Kant, cercavano di eternizzare”. Come ha evidenziato ancora Rorty, Whitman sosteneva che le opere di Hegel, intese come un “un preludio alla saga americana”, avrebbero meritato di essere “raccolte e rilegate sotto il titolo, in bella evidenza, Indicazioni per l’uso del Nord America e della democrazia in essa”.
L’interesse per Hegel non poteva condurre Whitman verso lo Stato etico, incompatibile con l’individualismo liberaldemocratico, ma saranno state alcune pagine delle Lezioni sulla filosofia della storia ad attirare la sua attenzione. Qui Hegel, delineando i progressi della libertà, indica, infatti, l’America come il luogo del futuro, “il paese dell’avvenire”, verso cui “si rivolgerà l’interesse della storia universale”.
Quel che conta, per Whitman, al di sopra dei diversi sistemi filosofici, è, secondo Martha Nussbaum, “l’amore umano e la nostra capacità di esprimerlo”. Ripercorrendo un cammino che da Platone lo ha condotto a Hegel, Whitman riconosce infatti che il rapporto empatico con gli altri deve prevalere sulla riflessione teoretica e anche sulla religione. Oltre Cristo, scrive, “il divino io vedo, \ il tenero amore dell’uomo per il suo camerata, l’attrazione dell’amico per l’amico, \ del marito e della moglie bene assortiti, dei figli e dei genitori \ della città per la città, del paese per il paese”. In questi versi, scrive Nussbaum, si esprime la volontà di Whitman di considerare la sua metafisica dell’amore come “l’autentica base della metafisica religiosa”. Nel solco della tradizione filosofica greca e cristiana, conclude Nussbaum, Whitman cercherebbe così di creare “un cosmo alternativo, democratico, in cui alle gerarchie delle anime si sostituisce il corpo democratico degli Stati Uniti, che egli definisce un immenso poema”.
In questo corpo democratico convergono le vite e le passioni dei singoli individui. Withman, come sostiene Nadia Urbinati, “estese la democrazia alla sfera del privato, alla psicologia e alla morale. Nessuno era escluso dai suoi canti, e a tutte le emozioni, i caratteri, gli stati mentali, le passioni egli concedeva un voto. Elencandoli, affastellandoli l’uno accanto all’altro, Withman di fatto dichiarava che tutti erano degni di uguale rispetto, gli atti eroici e virtuosi quanto quelli banali, comuni, sordidi”.
Nella capacità empatica del poeta di vedere dentro, Martha Nussbaum trova la ricchezza che l’immaginazione letteraria può offrire al mondo della politica per affrontare il disagio sociale e le diverse forme di esclusione. In Il canto di me stesso Whitman propone, in versi, il suo “lasciapassare della democrazia” : “ Non accetterò nulla di cui tutti non possano avere il \ corrispettivo alle stesse condizioni”, scrive, proponendosi di dare espressione alle “molte voci a lungo silenti, \ voci dell’interminabile generazione di prigionieri e di schiavi \ voci degli ammalati, dei disperati, dei ladri, […] voci proibite, \ voci di sessi e lussurie”. Ecco perché può dire di sé “Io son quegli che attesta la simpatia”, e può svelare la sofferenza che il silenzio spesso nasconde.
In questi versi, commenta Martha Nussbaum, Whitman identifica la sua missione di poeta con la democrazia: “E’ una missione -scrive- che comporta immaginazione, immedesimazione, simpatia, voce. Il poeta è lo strumento per mezzo del quale le molte voci a lungo silenti degli esclusi rimuovono il velo e vengono alla luce”. Solo l’immaginazione poetica può offrire allora una visione corretta della realtà delle loro vite, divenendo “un tramite decisivo per l’uguaglianza democratica”.
La filosofa americana ritiene che l’immaginazione poetica di Whitman sia essenziale per la formazione di una razionalità pubblica, tanto sul piano etico-politico quanto sul piano giuridico, dal momento che “la simpatia dello spettatore imparziale, da sola, non detta alcun esito specifico in alcuna particolare causa legale”. La nozione whitmaniana di giustizia poetica potrebbe allora venire incontro, secondo Nussbaum, ai limiti di una concezione esclusivamente formale del diritto. Un giudice che si aprisse a questo approccio potrebbe allora, come Whitman, vedere “nei fili d’erba la pari dignità di tutti i cittadini”. Se fantasia ed empatia non avranno diritto di cittadinanza nelle aule di tribunale, prosegue Nussbaum, “le voci a lungo silenti che cercano di farsi sentire per mezzo della loro giustizia rimarranno silenti, e l’alba del giudizio democratico rimarrà velata. Se manca questa capacità, l’interminabile generazione di prigionieri e di schiavi continuerà a soffrire intorno a noi e avrà minori speranze di libertà”.
Queste considerazioni rinviano a un passo di Aristotele, che, nella Retorica, utilizza il concetto di equità per indicare una forma di giustizia “che va oltre alla legge scritta”. Essere equi, scrive il filosofo greco, “significa essere indulgenti verso i casi umani, cioè badare “non alla lettera della legge, ma allo spirito del legislatore; e non all’azione ma al proponimento, e non alla parte ma al tutto, e non a come è ora l’imputato, ma come è stato sempre e per lo più”. Solo la capacità intuitiva ed empatica del giudice può cogliere, come ha rilevato Nussbaum, la complessità del mondo interiore del cittadino. L’individualismo di Whitman non si pone dunque a fondamento di un culto aristocratico, ma si apre alla dimensione sociale, senza cedere ai richiami del comunitarismo, in cui il singolo rischia di annullarsi.
È facile vivere nel mondo accettando l’opinione della moltitudine, scrive Ralph Waldo Emerson, o vivere in solitudine rimanendo coerenti con le proprie convinzioni, “ma l’uomo grande è quello che nel bel mezzo della mischia mantiene con perfetta serenità l’indipendenza della solitudine”.
Se, per Emerson, dobbiamo renderci autonomi da ogni forma di soggezione nei confronti dell’autorità o della tradizione, dobbiamo anche essere capaci di rimettere in discussione noi stessi. Quando le nostre decisioni saranno libere, “saranno armoniche, per quanto dissimili esse possano sembrare” e, viste a distanza, mostreranno “una sola tendenza che le unisce tutte. […] La rotta della nave migliore è una linea a zig zag di centinaia di piccole deviazioni. Guardate la sua linea da una distanza sufficiente, ed essa si raddrizzerà nella tendenza media”. Un’azione genuina si spiegherà se stessa, sostiene Emerson, mentre il conformismo “non spiegherà niente”. Insisti su te stesso, ammoniva, “non imitare mai”.
Questa scelta di radicale autonomia richiede personalità forti, ma non Super-uomini. Nell’immagine della nave che segue una rotta a zig zag, si riconosce lo spirito critico del pensiero di Emerson, e la sua fiducia nell’individuo, che può essere libero solo in quanto il suo agire non è eterodiretto.
L’antidoto all’uniformità non può allora essere costituito per Emerson, come per Whitman, dal rifugio in una dimensione comunitaria pre-moderna. L’unione è perfetta, scriveva Emerson, “soltanto quando tutti gli aderenti sono isolati. È l’unione degli amici che vivono in quartieri o città diverse. Chi tenta di unirsi ad altri, scopre di essere diminuito nelle sue proporzioni; e più stretta è l’unione più egli è piccolo e pietoso”.
Non ci sono fatti sacri né profani per Emerson, che dichiara di scegliere “una ricerca senza fine, senza un passato alle spalle”. Ogni atto finale è, per lui, “solo il primo di una nuova serie, ogni legge generale soltanto un fatto particolare di qualche legge più generale che sta per dischiudersi. Perché non abbiamo esterno, non abbiamo mura che ci racchiudono, non abbiamo circonferenza”.
Queste tesi di Emerson sono dunque in netto contrasto con chi, come Alasdair MacIntyre, colloca in primo piano l’appartenenza “a questo clan, a quella tribù, a questa nazione”, contrapponendosi all’individualismo che, a suo avviso, vorrebbe liberarsi dal retaggio della tradizione. Tradizione che potrebbe sopravvivere, secondo MacIntyre, solo in piccoli gruppi, simili alle comunità monastiche medioevali. Emerson vide nelle espressioni dell’associazionismo forme di self-government, piuttosto che segni di appartenenza o nostalgici ritorni al Medioevo. L’individualismo rappresentò per lui, come per Withman, una difesa dell’autodeterminazione dei singoli, con finalità non utilitaristiche o solipsistiche, ma inclusive.
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Nelle democrazie, ha scritto Nadia Urbinati, “fazioni, sette, mode, conformità ci attirano a sé e ci chiedono il nostro consenso, la nostra arrendevole identificazione. La fiducia in se stessi presuppone una condizione di adesione e di disimpegno a un tempo, di ricettività ma anche di distacco e distanza”. Ripensare oggi la Fiducia in sé stessi di Emerson può consentirci di difenderci dalle nuove forme di omologazione, nella consapevolezza che solo cittadini che possiedano la capacità di autodeterminarsi sono in grado di dar vita a quel Corpo democratico che animava la poesia civile di Walt Whitman.
Testi citati
Whitman, Foglie d’erba, trad. it., Einaudi, Torino, 1965.
Rorty, Una sinistra per il prossimo secolo. L’eredità dei movimenti progressisti americani nel Novecento, trad. it., Garzanti, Milano, 1999.
W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 4 voll., trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1975, vol. I.
Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1995.
Id., L’intelligenza delle emozioni, trad. it., Il Mulino, Bologna, 2011.
Aristotele, Retorica, trad. it. in Opere, 4 voll., vol. IV, Laterza, Roma-Bari, 1973.
Urbinati, L’individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Donzelli, Roma, 2009.
W. Emerson, Saggi, Boringhieri, Torino, 1962.
Id., Il trascendentalista e altri saggi scelti, Mondadori, Milano, 1989.
MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, trad. it., Armando, Roma, 2007.
È presidente del Collegio Siciliano di Filosofia. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea presso l’Istituto superiore di scienze religiose San Metodio. Già vice direttore della Rivista d’arte contemporanea Tema Celeste, è autore di articoli e saggi critici in volumi monografici pubblicati da Skira e da Rizzoli NY. Collabora con il quotidiano Domani e con il Blog della Fondazione Luigi Einaudi.