I temi che per lungo tempo hanno definito la politica americana in Medio Oriente hanno perso rilevanza. A dispetto di una maggiore complessità di fattori, Washington non ha saputo rifocalizzare e riorientare la propria presenza nella regione. Innanzitutto, il dibattito intorno alle opzioni stay in o get out non tiene conto di una realtà che è mutata dall’epoca in cui ogni cosa poteva essere giustificata in nome degli Stati Uniti. L’amministrazione entrante dovrà, quindi, provare a chiarire ciò che è strategico, in questo momento storico, e nell’odierna fase di profonda crisi economica, canalizzare quelle risorse che sono davvero necessarie per proteggere i nuovi interessi e affrontare le grandi sfide della sicurezza.
Nel corso della guerra fredda, e fino alla prima parte del secolo, le questioni che hanno determinato l’intervenzionismo nell’area sono state il mantenimento del flusso di greggio dal golfo Persico, che ha tutelato bassi prezzi al consumo, la prevenzione della proliferazione delle armi di distruzione di massa, la lotta al terrorismo, e la protezione di Israele. Tuttavia, nel contesto geopolitico, sociale e tecnologico attuale, e sulla base dell’insuccesso accumulato – già da prima dell’invasione dell’Iraq nel 2003 e nonostante le condizioni di supremazia -, queste non motivano, né dal punto di vista strumentale né da quello etico, le spese militari e la drammatica perdita di vite umane, che hanno comportato.
Da un lato, l’applicazione della fratturazione idrica su pozzi di petrolio e gas ha reso gli Stati Uniti quasi indipendenti sul versante delle fonti di energia, ponendo in dubbio la convenienza di seguire con investimenti massivi in Medio Oriente. Dall’altro, il controllo degli arsenali nucleari, si è dimostrato materia di diplomazia regionale e internazionale, che non richiede la pesante infrastruttura bellica sul territorio. Il terrorismo, dal canto suo, non solo ha subito duri colpi in Iraq e Siria, ma la sua persistenza in alcune aree ha provato essere dovuta alla stessa permanenza di truppe, ponento l’accento su una rivalutazione delle dinamiche di causa ed effetto. Oltre al resto, le inquietudini degli americani, nell’era Covid-19, sono perlopiù orientate alle prospettive del mercato del lavoro. Israele, poi, si è convertito in un’economia avanzata, con un Pil alla pari della Francia e del Regno Unito, ha normalizzato le relazioni con le nazioni arabe, e può detenere l’Iran e i suoi alleati grazie a sofisticati sistemi, non legittimando quel sostegno su cui ha potuto sinora fare affidamento.
Il fallimento della trasformazione delle società arabe, la detenzione dello sviluppo nucleare iraniano, o la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, suggeriscono un approccio distinto, fondato su obiettivi viabili, in antitesi al ridisegno utilitaristico del Medio Oriente. Preservarne, piuttosto, la stabilità, con un coinvolgimento mirato, calibrato sul consenso, potrebbe rivelarsi efficace. In Iran, una politica di contenimento, centrata su regole accettabili sul piano regionale, combinata con una riacquisita credibilità rispetto all’uso della forza, pagherebbe più dell’auspicato, e mai realizzato, rovesciamento di governo. Per tutto contrario, la mancata reazione all’attacco ai campi petroliferi in Arabia Saudita nel 2019, che i servizi occidentali concordano nell’attribuire all’Iran, ha messo in rilievo la distorsione fra mezzi disponibili e opportunità. In uno scenario confrontativo, la preoccupazione per le conseguenze della risposta han prevalso sugli stessi interessi americani, creando una situazione controproducente.
Impiantarsi come garanti dell’ordine implica, però, rassicurare in merito a quello che ai principali attori è parso un disimpegno irrazionale e unilaterale, che ha destabilizzato la penisola arabica, rendendo difficile, per ironia, proprio la difesa energetica e l’opposizione al terrorismo. Lo Yemen ne è un esempio da manuale. La guerra venne iniziata, nel 2015, dai sauditi, dopo il ritiro degli americani dall’Iraq, che aveva permesso all’Iran di consolidare un ruolo nella politica interna di questo paese, e il ripiego dal conflitto siriano, che a sua volta aveva creato le premesse per una penetrazione capillare di Teheran, attraverso le milizie ideologiche sciite pasdaran e hezbollah. La presa di Sanaa a mano di Ansar Allah, nel 2014, con l’appoggio dell’Iran, e una percepita indifferenza degli Stati Uniti alla sua crescente influenza, mise in allarme Riyadh. Pure l’accordo sul nucleare aveva provocato tensioni con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Israele, malgrado la fornitura di armamenti a cambio di un beneplacito cosmetico e precario.
In questa stessa ottica, va riadattato l’assetto militare installato negli ultimi vent’anni, a salvaguardia delle rotte marittime del greggio, che risulta sproporzionato per lo scopo deputato. Inoltre, gli Stati Uniti devono superare la retorica della “guerra al terrorismo” e riorganizzarne le manovre di contrasto. In Iraq e altrove, la jihad si può ridurre a livelli gestibili con azioni di intelligence, polizia e cooperazione multilaterale. E ancora, è fondamentale ridimensionare gli aiuti a Israele in modo da riflettere la portata della sua forza relativa. La scelta non si pone fra il ritirarsi o il rimanere tout court, si tratta piuttosto di decidere dove, perchè e su quale scala.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.