Tutti i presidenti americani, dal 2001 a oggi, hanno inseguito il momento adatto per ritirarsi dall’Afghanistan, ossia quell’ineffabile punto di equilibrio fra l’intensità della guerra e la solidità del governo che permettesse un’evacuazione senza il rischio di un’ondata terroristica. Neppure uno è riuscito nell’intento e non per assenza di opportunità.
Una miscela di fiducia sproporzionata negli esiti militari, e una apprensione smisurata per eventuali ripercussioni in patria, non ha permesso di cogliere alcune occasioni che avrebbero potuto essere risolutive se non per la pace, almeno per un bilancio meno violento. Il conflitto in Afghanistan, con oltre diciotto anni, è il più lungo nella storia degli Stati Uniti. È costato mille miliardi di dollari, la vita di 2.300 soldati americani e lesioni di altri 20 mila. Almeno mezzo milione di agfhani, tra governativi, talebani e civili, sono morti o sono stati feriti. Malgrado il prezzo pagato, Kabul non è in grado di sopravvivere senza il sostegno di Washington.
La “guerra buona”, in contrasto a quella in Iraq, venne sferrata da George W. Bush, in reazione all’attacco dell’11 settembre. Il regime talebano fu rovesciato, al Qaeda sparigliata, e venne istituito un esecutivo retto dal moderato Hamid Karzai. Per quattro anni, il paese si mantenne relativamente tranquillo. Nel 2004, venne approvata la costituzione, vennero indette elezioni democratiche e Karzai riuscì a catalizzare il consenso delle fazioni avverse. In piena narrativa del trionfo, Mullah Omar, lanciò dalla clandestinità un appello alla riorganizzazione e il rilancio dell’offensiva. Venne fondata la Shura di Quetta -città pachistana sede delle manovre talebane-, militanti vennero proscritti e addestrati, quadri si infiltrarono in Afghanistan. Gli Stati Uniti sottovalutarono il pericolo e non vennero presi sufficienti provvedimenti contro il Pakistan, da dove invece si riprofilava movimento.
Per tre anni, dal 2006, i talebani avanzarono, sino a conquistare gran parte del sud e dell’est, e creare un governo parallelo. I terroristi si muovevano con libertà fra le basi in Afghanistan e quelle in Pakistan, ma in difesa di altri interessi geopolitici, quest’ultimo continuò a essere considerato un alleato. Gli Stati Uniti vennero assorbiti in scontri serrati, e nonostante la provata resilienza talebana, la strategia non cambiò e si continuò a puntare a una affermazione assoluta. Nel 2009, Barack Obama inviò rinforzi per quasi 100 mila soldati con un piano di ripiego entro il 2011. Durante il triennio successivo, fu ristabilito l’ordine nelle principali città, l’esercito regolare e la polizia vennero irrobustiti, e Osama bin Laden cadde in un’operativo speciale. Tuttavia, in questo periodo si registrarono le perdite maggiori in due decenni e gli Stati Uniti di Obama spesero per anno in Afghanistan oltre il 50 per cento dello stanziamento pubblico per l’educazione. In questa fase, Obama si concentrò sul controterrorismo, l’orientamento e la formazione delle milizie. Annunciò una nuova data per la smobilitazione totale entro il 2016, senza però fare i conti con la rilevanza degli aspetti psicologici della prolungata presenza americana, le sequele sociali del conflitto, e le frizioni fra le dimensioni tribali e di classe. Di fatto, nel 2015, l’esercito afghano, superiore in numeri e meglio preparato ed equipaggiato, perse una battaglia dietro l’altra. A Kunduz 500 talebani sconfissero 3 mila soldati, e a Helmand in 1.800 ne batterono 4.500. Nel 2016, il premier, Ashraf Ghani, era più debole del suo omologo di dieci anni addietro, e i talebani controllavano una porzione preponderante di territorio. Obama sospese le proprie decisioni.
Quando Trump arriva alla Casa Bianca, nel 2017, l’Afghanistan si trova in pieno conflitto. Dapprincipio, approva un aumento di unità dell’esercito, ma alla ricerca di una via d’uscita, nel 2018, apre a negoziazioni con i talebani. Un tentativo realizzato fra il 2010 e il 2013 non prospera. Non si riescono a configurare i gruppi negoziatori, il Mullah Omar resta nascosto in Pakistan, e poi muore lasciando un vuoto nella controparte. Nel 2019, Trump giunge al punto più prossimo a un ritiro in vent’anni.
Attraverso nove complicati colloqui, viene pattuito un cronogramma con i talebani e il cessate il fuoco, a cambio della loro partecipazione nelle negoziazioni con il governo afghano. L’annuncio del termine della guerra è previsto a Camp David nel mese di settembre, ma l’uccisione e il ferimento in Afghanistan di soldati americani fa sfumare l’unica vera possibilità di pace.
All’insuccesso hanno contribuito tre fattori principali: la corruzione, l’influenza del Pakistan, e l’idea identitaria della resistenza. La mancata proattività americana nel rimuoverne i presupposti o contrarrestarne le conseguenze, e la loro evoluzione nel tempo, ha prodotto un accumulo di situazioni sfavorevoli.
Il desvio di fondi pubblici, la confisca di terre di oppositori, l’assegnazione clientelare di posti statali, e l’abuso di azioni americane per eliminare nemici politici, hanno generato critiche e malcontento, e motivato l’insurgenza. Molte tribù, abbandonate a sé stesse, senza appoggio per risolvere problemi di ordine socioeconomico, o vessate da diatribe intertribali, che il governo ha nutrito invece di comporre, hanno finito per abbracciare la dottrina talebana, offrendo uomini e logistica. Gli effetti del ruolo del Pakistan, inoltre, sono stati sottostimati. Nel 2001, il presidente Pervez Musharraf aveva tagliato i ponti con i talebani, in risposta a un diktat dell’amministrazione Bush.
Nondimeno, il timore che l’India stesse guadagnando terreno in Afghanistan, con i Tajiks – gruppo etnico reputato antipachistano – nella coalizione di Karzai, fece sì che, nel 2004, ritornasse alla condotta iniziale. Il Pakistan ha fornito ai talebani un porto franco, organizzato campi di esercitazioni e assistito la pianificazione bellica.
La misura dell’onore nazionale e del valore individuale incarnati dai talebani, e radicati nella difesa della patria e della religione, hanno ispirato generazioni di combattenti volontari. Nel 2015, un’inchiesta tra funzionari di polizia di 11 province, condotta dall’Istituto Afghano di Studi Strategici, rivelò che l’11 per cento degli intervistati si fosse arruolato per fronteggiare i talebani. Il resto aspirava a un salario e non era motivato a morire per una causa. Questa asimmetria spiega il comportamento negativo delle forze di sicurezza afghane in determinate congiunture.
Ci sono anche state disposizioni che avrebbero potuto essere diverse: il fiasco non era inevitabile.
Circostanze vantaggiose si sono presentate fra il 2001 e il 2005, nel 2014 e nel 2011. Purtroppo, gli Stati Uniti non hanno intrapreso il cammino che avrebbe potuto evitare l’instabilità che è subentrata. L’esclusione dei talebani dall’accordo posteriore all’invasione è stato il primo errore a carico della squadra di Bush. Leader di rango tentarono di negoziare la pace nel dicembre del 2001, e si riavvicinarono fra il 2002 e il 2004, pronti ad abbandonare le armi, riconoscere Karzai come legittimo, a cambio di poter aderire al processo politico. In entrambi i casi, venne bandito qualsivoglia dialogo. Pur avendo precluso la conciliazione nazionale e lasciato ai talebani la lotta come sola opzione, la costruzione dell’esercito afghano fu lenta e insufficiente. La facilità con cui si diede l’occupazione nel 2001 aveva plasmato una percezione distorta di vittoria e gli Stati Uniti si concentrarono sull’Iraq. Nel 2006, erano stati approntati 26 mila soldati, e quando i talebani tornarono ad aggredire la disfatta fu inesorabile.
La forma della repressione che ne è seguita è stato il secondo errore, riconducibile sia a Bush sia a Obama, in quanto ha catalizzato un aumento della resistenza. In retrospettiva, gli Stati Uniti avrebbero ottenuto migliori frutti se non avessero reagito con tanta durezza. Obama, in campagna elettorale, aveva promesso un aumento delle truppe per sconfiggere i talebani e i suoi provvedimenti hanno provocato una spirale catastrofica.
Il terzo errore è stato porre restrizioni ai raid aerei. Obama deliberò che sarebbero stati utilizzati in extremis, quando una postazione afghana fosse in pericolo di un’imminente distruzione. Se il proposito era quello di ridurre il coinvolgimento americano, e il sacrificio umano, il risultato fu del tutto divergente. I talebani si rinvigorirono, precipitando gli americani nella sconfitta. Di fronte agli alti costi e gli scarsi benefici, per quale ragione gli Stati Uniti non hanno abbandonato l’impresa? La domanda trova risposta nelle tattiche elettorali interne. Dopo l’11 settembre i presidenti americani sono stati ostaggio dell’incognita terrorismo. Fino al 2002, i sondaggi Gallup mostravano che la maggioranza degli americani credeva che un nuovo attentato sul suolo nazionale fosse probabile. Per questa ragione, Obama, in realtà, non ha mai avuto una genuina intenzione riguardo al ripiegamento. Solo dopo la soppressione di bin Laden, un sondaggio Gallup del maggio del 2011 indicò che il 59 per cento degli americani credeva che la missione in Afghanistan si fosse conclusa. Persisteva, comunque, una minaccia residuale, e la nascita dell’Isis nel 2014 in Iraq e Siria portò a optare per rimanere. Anche Trump, temendo di essere danneggiato sul versante politico, dopo le incursioni talebane del 2019, abbandona il tavolo negoziale.
Ritirarsi dall’Afhanistan si è rivelato altrettanto difficile che vincere la guerra. La verità è che nessuno ha avuto il coraggio di rischiare il potere a cambio della pace. Con probabilità, è anche venuta meno una strategia aldilà di punti di vista unilaterali, belle speranze e grandi annunci.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.