La reazione alla paura e l’incertezza, infuse dalla propagazione rapida e letale del nuovo coronavirus, e al severo impatto economico del confinamento sociale, hanno fatto insorgere speculazioni su un cambio radicale nell’etica e l’ordine globale post crisi. Con probabilità, non sarà così. Molti segnali suggeriscono che la pandemia, e la reazione alla stessa, non stravolgeranno la direzione in cui si è mosso il mondo nei decenni scorsi, e le fondamentali caratteristiche della geopolitica attuale, bensì le accelereranno.
Assenza di leadership globale. Una caratteristica dell’emergenza è l’assenza di leadership nella sua gestione internazionale e la mancata realizzazione di uno sforzo collegiale per confrontarla. Taluni sono ricorsi in maniera asistematica alla Cina, avendo per prima superato il picco, e nessuna indicazione precisa è provenuta dagli Stati Uniti, gigante scientifico e della ricerca medica. L’irrilevanza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è uno degli elementi rivelatori dell’inconsistenza della governanza globale. La pandemia, infatti, ha reso evidenti fattori anteriori a essa: l’emergere di sfide che i paesi non sono in grado di assumere separatamente e il fallimento delle organizzazioni preposte a trovare le soluzioni. Lo scarto fra i problemi e la competenza per dirimerli è la misura del dilagare del virus, prima che l’indisponibilità di un vaccino. La definizione di “comunità internazionale” si riferisce, dunque, a qualcosa di inesistente, un mero spazio aspirazionale.
Declino del modello americano. Malgrado il valore assoluto della forza economica e militare americana sia aumentato, il vantaggio relativo del suo modello unipolare è decresciuto. Nel vuoto apertosi, altri poteri si sono rinvigoriti, senza che alcuno sia riuscito a occupare il posto lasciato vacante. Ció che è venuto meno, non è stata certo la capacità statunitense, bensì la sua volontà. Barack Obama ha dato inizio al ritiro dal Medio Oriente e Donald Trump ha continuato con la riduzione delle truppe in Afghanistan e messo fine alla presenza in Siria. Invece che sul campo di battaglia, i nemici sono stati sfidati sul piano finanziario, economico e commerciale. Nel messaggio “America first” è implicito il presupposto secondo il quale la partecipazione americana in faccende transnazionali sia inutile, dispendiosa e disconnessa dalle priorità domestiche. La pandemia sembra aver rafforzato questa attitudine, piuttosto che la valutazione che quello che avviene nell’ambito interno è determinato dalle dinamiche del resto del mondo. Si tratta di una falsa scelta, considerato che il paese puó permettersi entrambe le alternative, ma è quella prevalente. Già dalla cattiva conduzione della crisi finanziaria del 2018, l’attrattiva del paradigma americano era precipitata. La risposta lenta, incoerente e inefficace alla pandemia corrobora la percezione che gli Stati Uniti abbiano perso in via definitiva il proprio ruolo tradizionale.
Deterioramento delle relazioni sino-statunitensi. Se la speranza è che le potenze mondiali si alleino per estinguere l’allarme planetario generato dalla COVID-19, ciò non avverrà nel quadro delle relazioni sino-statunitensi, ormai deteriorate da tempo. Per tutto contrario, la pandemia sta esacerbando le frizioni. Washington imputa la negligenza cinese di settimane di censura dell’informazione e il ritardo nella quarantena di Wuhan, la città dove l’infezione ha avuto inizio, così permettendone il dilagare. La Cina si auto-ritrae come un esempio di successo nel fermare la trasmissione e usa l’impeto del momento per espandere le sue aree di influenza a scapito degli Stati Uniti. D’altra parte, niente puó mutare la visione cinese della presenza americana in Asia come un’anomalia storica o ridurre il risentimento rispetto alle strategie commerciali di Trump o l’appoggio a Taiwan. L’idea dello sdoppiamento delle due economie ha guadagnato trazione, spinta dai timori degli Stati Uniti, che hanno maturato una dipendenza dall’avversario su beni essenziali, e una sovraesposizione ad attività di spionaggio e furto di proprietà intellettuale.
Avanzata dei nazionalismi. Le strategie contro la pandemia sono tutte applicate in un’ottica nazionale, o addirittura subnazionale, e una volta che la drammacità immediata venga superata, l’enfasi sarà sulla ripresa locale. L’interruzione delle catene di fornitura, e il bisogno di stimolare l’industria manifatturiera per non perdere altri posti di lavoro, gioca a favore di politiche protezionistiche. In generale, il commercio si ristabilirà in forma parziale, ma sarà pilotato dai governi più che dai mercati. Nel contesto dato, sarà quasi impossibile mantenere la coscienza e l’entusiasmo, da poco stimolati, per temi trasversali come il cambiamento climatico e, verosimilmente, si tornerà a considerare questo e altri alla stregua di problemi distanti da necessità impellenti.
Debolezza statale. D’altro lato, da qualche decennio gli stati hanno proiettato fragilità diffuse e continue e il deficit economico, provocato dai lunghi periodi di isolamento preventivo e obbligatorio, conduce a maggiore debolezza o nazioni fallite. Il debito pubblico, dove i governi devono coprire spese impreviste nei campi della sanità e della protezione sociale, non può che lievitare, quando aveva raggiunto livelli senza precedenti prima della crisi. I paesi in via di sviluppo si ritrovano con ostacoli insormontabili ed è da valutare se quelli industrializzati saranno pronti a collaborare dovuto alle difficoltà endogene. I contraccolpi in India, Brasile, Messico, e nel continente africano, potrebbero allora interferire con il rilancio globale.
Acutizzazione del fenomeno migratorio. La resistenza verso rifugiati e migranti, osservata negli ultimi anni, si vedrà intensificata. L’alto tasso di disoccupazione, creato dal blocco della produttività, renderà gli stati riluttanti ad accogliere stranieri. L’opposizione salirà, anche se il numero di rifugiati su scala mondiale è arrivato a una cifra senza eguali, e continuerà a lievitare, dovuto a situazioni di conflitto, violazioni dei diritti umani, e l’assenza in economie povere o precarie di opportunità adeguate di vita e realizzazione personale dei cittadini.
Recessione democratica. Gli avvenimenti accaduti e le decisioni prese in relazione al COVID-19 hanno irrobustito il processo di retrocessione democratica che si era reso palese da almeno quindici anni. Si è aperto strada un autoritarismo statale, a causa del quale le libertà civili non vengono sacrificate solo per il contenimento del contagio, bensì per un controllo funzionale alla soppressione della dissidenza politica, approfittando del fatto che l’attenzione internazionale è distolta dall’emergenza. Quando il pericolo cesserà di esistere, le tendenze potrebbero restare vigenti.
Mancanza di coesione europea. L’espansione della pandemia ha mosso in seconda battuta il progetto europeo di integrazione di per sé vacillante, dopo il duro colpo della Brexit. Ognuno reagisce alla situazione, e agli effetti economici negativi, in modo disgiunto e al meglio delle proprie facoltà. La principale questione sarà capire quanto il pendolo seguirà oscillando verso i nazionalismi, anche a partire dalle richieste di vigilanza diretta dei confini per evitare il passaggio del virus, ma in realtà orientate all’amministrazione autonoma dei fenomeni migratori.
All’indomani della seconda guerra mondiale, venne stabilita un’architettura compatta che, almeno in Europa, ha promosso pace e prosperità. Tuttavia, la scena contemporanea non è così semplice da riorganizzare intorno a obiettivi condivisi. Con il potere distribuito in diversi poli, statali e non, il consenso è arduo da ottenere, sebbene il terrorismo, la proliferazione di armi nucleari, l’anarchia del ciberspazio, il riscaldamento globale, le migrazioni forzate di massa, e l’eventualità di altri rischi sanitari, lo richiederebbero. Non c’è nessuno che sia credibile per assumersene la responsabilità e persino l’intelligenza collettiva per analizzare scenari mutevoli è scemata. Il panorama non è quello di una ricomposizione di interessi vis-à-vis l’esperienza della minaccia comune, quanto un’amplificazione di rivalità e disordine.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.