Immuni sin da suo lancio, come tutte le italiche cose ha diviso il Paese in due opposte categorie. Ovviamente anche io ho inizialmente preso una posizione critica, che mantengo attualmente sulla base di alcune considerazioni che proverò qui ad esporre brevemente.
Uno degli argomenti più banalmente “pro” parte dal presupposto che oggi i nostri dati e posizione sono in mano di chiunque, in particolar modo dei social network per cui tutti dovrebbero installarla per monitorare il contagio.
Altri, cogliendo le preoccupazioni relative alla privacy, sostengono che il sacrificio vada accettato in nome di un interesse superiore come quello della tutela della salute, in quanto tale monitoraggio – anche alla luce di molte esperienze internazionali – sarebbe il modo più efficace di contenere la diffusione dell’epidemia.
Le due argomentazioni possono sembrare simili, ma non lo sono. L’utilizzo della APP pone anche altri importanti questioni che non saranno qui affrontate, rischi tecnologici, rischi geopolitici etc.. come anche evidenziate dal Copasir.
Ma veniamo alla prima motivazione, indubbiamente la più debole. Affermare che l’App vada utilizzata sul presupposto che “attraverso i nostri smartphone ormai tutti ci ascoltano e sanno dove siamo” o che “ogni volta che usiamo internet diamo ad altri le nostre informazioni”, sembra sfuggire alla semplice logica che attualmente nessuno di quegli “altri”, tralasciando il caso di un trojan installato su ordine dell’autorità giudiziaria, abbia un qualunque potere autoritativo nei nostri confronti. Al contrario l’alert di Immuni sarebbe idoneo a realizzare obblighi e divieti a carico di chi lo riceve.
L’alert infatti, secondo la Circolare del Ministero della Salute del 29 maggio 2020 , segnalerebbe il verificarsi di un “contatto stretto” da parte del ricevente con contagiato COVID. Secondo la stessa circolare sarebbe definito “contatto stretto”, tra le altre, anche il caso di “una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso COVID-19, a distanza minore di 2 metri e di almeno 15 minuti”.
I contatti stretti sarebbero quindi soggetti non solo al divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione/dimora e di contatti sociali, ma anche all’obbligo di rimanere raggiungibili per le attività di sorveglianza attiva.
Inoltre, al soggetto che ha ricevuto un alert sarebbe imposto il divieto di accesso al luogo di lavoro, ciò secondo il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 24 aprile 2020 . Infatti le imprese devono informare i propri dipendenti circa “l’accettazione del fatto di non poter fare ingresso in azienda e di doverlo dichiarare […] laddove […] sussistano condizioni di pericolo (sintomi di influenza, temperatura, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.) in cui i provvedimenti dell’Autorità impongono di informare il medico di famiglia e l’Autorità sanitaria e di rimanere al proprio domicilio”. Se colleghiamo tale previsione al fatto che (sempre secondo la circolare del Ministero della Salute) l’altra funzionalità principale della APP è quella di invitare la persona a mettersi in contatto col proprio medico, ecco che in conseguenza della ricezione dell’alert sorgerebbe di fatto in capcapo al lavoratore il divieto di recarsi sul luogo del proprio lavoro.
E’ evidente che nessun social network o chiunque altro – a meno dell’autorità giudiziaria, repetita iuvant – possa utilizzare i nostri dati per imporci autoritativamente di soggiacere ad obblighi che tanto incidono sulla libertà di movimento. Con buona pace della prima argomentazione, secondo la quale “se i nostri dati li hanno tutti, perché non utilizzare la App”.
La seconda argomentazione è più seria, e merita rispetto. Infatti, secondo un principio di solidarietà, pure iscritto nella nostra Costituzione, è sopportabile vedere ridotto temporaneamente un proprio diritto in nome di una tutela collettiva, come nel caso dell’epidemia di un virus di cui non si hanno ancora cure definite e soprattutto un vaccino.
Ma a tale principio di solidarietà dovrebbe corrispondere un eguale dovere dello Stato a fare quanto possibile per ridurre al minimo l’attesa per confermare o meno lo stato di contagio della persona che ha ricevuto l’alert. Attualmente invece l’attesa di un tampone (non del suo esito per i quali i tempi possono variare da qualche ora e 24 ore) può anche essere superiore ad una settimana, quanto di questo ritardo è dovuto ad una cattiva gestione della cosa pubblica? Può un cittadino rimanere in balia di una macchina pubblica che si è spesso più preoccupata di produrre annunci piuttosto che provvedimenti concreti? Come può il cittadino difendersi di fronte ad una palese inefficienza dello Stato?
Qui non stiamo parlando delle condizioni nelle quali si sono trovati ad operare tantissimi medici, infermieri e personale ospedaliero, anzi loro stessi sono stati vittime di una gestione poco efficiente della cosa pubblica da parte di chi ne aveva il potere e l’autorità. Negli ospedali si è fatto ciò che si è potuto nelle condizioni date e a quelle persone si deve solo dire grazie. No. Qui stiamo parlando di chi avrebbe dovuto inserire l’utilizzo di una App come Immuni nell’ambito di una strategia che non è fatta solo di regole e codici, ma anche di capacità manageriale, logistica e organizzativa. Vale ricordare che l’ordinanza su Immuni è stata firmata ormai il 16 aprile dal commissario Arcuri. Ma già prima di tale data, proprio dal momento in cui è stata presa a decisione di implementare una qualunque soluzione di contact tracing (se ne parlava da nel mese di marzo, sulla scorta delle meravigliose sorti della Corea del Sud e di Singapore), ci si sarebbe dovuti attrezzare sul come gestire i casi di alert.
Insomma, mentre ci siamo concentrati molto (e giustamente) sulla natura e sulla efficacia dell’App, qualcuno avrebbe dovuto lavorare sulla efficienza del sistema.
Mentre scrivo questa nota, da Singapore, uno dei paesi che ha fatto un uso intensivo delle App di contact tracing, arriva la notizia che la metà dei contagiati sarebbe asintomatico, per cui l’App non riesce più a lavorare come previsto. Se la metà dei contagiati non ha neanche un raffreddore, forse affidarsi al contenimento del virus tramite App ci ha fatto perdere un po’ di vista il fatto che del Covid sappiamo ancora poco e che vivremo ancora in una fase di incertezza, nella quale l’ultima cosa che possiamo fare è tornare a chiuderci nelle nostre case.
Direttore Generale della Fondazione Luigi Einaudi
Nato a Palermo nel 1976, è stato deputato della XVII legislatura. La sua attività parlamentare è stata relativa ai settori: innovazione, telecomunicazioni, venture capital, strumenti di pagamento, antiriciclaggio.
Laureato in legge, è attualmente consulente di importanti aziende in ambito regolatorio.