Nonostante l’annuncio iniziale del ritiro americano dalla Siria sia stato rettificato – specificando che avverrà solo alla completa sconfitta dell’Isis, e con garanzie da parte turca del rispetto degli alleati curdi, la risoluzione spalanca uno scenario, in cui le cause del conflitto rimangono irrisolte, e il pericolo di un’instabilità permanente non è da escludere. Intanto, domenica scorsa, l’unità arabo-curda delle forze siriane democratiche ha sferrato la terza offensiva all’ultima roccaforte dell’Isis nel paese, dalla ripresa della battaglia, dopo l’evacuazione delle famiglie dei miliziani e i soldati arresi, e nella giornata di ieri, la risposta da al-Bagouz ha preso la forma di attacchi suicidi. Il comando centrale degli Stati Uniti ha diffuso notizie, secondo le quali, interviste realizzate sia acivili, sia a foreign fighters, nei campi di raccolta, hanno rilevato atteggiamenti di estrema, irriducibile, e impenitenteradicalizzazione, e l’intenzione di tornare a insorgere nel momento propizio. Fonti della stampa internazionale hanno confermato le informazioni, riportando reazioni virulente all’indirizzo di reporter e fotografi, con minacce di nuove conquiste del califfato.
Gli Stati Uniti intendono concentrare sforzi e risorse su obiettivi che ritengono vitali come lo scontro, su molteplici fronti da seconda guerra fredda, con Cina e Russia. Tuttavia, nella situazione data, è con quest’ultima che paradossalmente dovrà dialogare. Le truppe americane sono stanziate nella zona orientale, che occupa un terzo della Siria, dove sono concentrate le principali riserve di acqua, petrolio e grano, e la produzione di energia elettrica. Abbandonare questo avamposto significa rinunciare all’influenza sulle trattative riguardo al futuro assetto del paese. Inoltre, un’eventuale rimonta dell’Isis, che ha riparato nella valle dell’Eufrate e le aree attigue dell’Iraq occidentale, sarebbe letale per gli interessi degli Stati Uniti, così come un ulteriore ampliamento della rete sostenuta dall’Iran; eventi che potrebbero essere innescati dal vuoto lasciato.
La repubblica islamica iraniana, che a febbraio ha compiuto quarant’anni, ha coltivato legami con gruppi sciiti in nazioni considerate di fondamentale importanza per la propria salvaguardia: Afghanistan, Libano, Pakistan, Siria e Yemen, per citarne alcune. La strategia prevede la collaborazione con attori armati non statali, che l’Iran addestra ed equipaggia, e mobilizza in diversi teatri, per avversare nemici e aumentare la sfera di influsso regionale, superando l’inferiorità militare convenzionale e minimizzando i costi degli interventi. L’espansione dei combattenti finanziati dall’Iran è stata frenata in Iraq dalla permanenza statunitense dal 2003 al 2011. Ma mentre l’Iran appare determinato ad apparire come un fattore di stabilizzazione, dove gli americani hanno ridotto i contingenti – è impegnato a osteggiare l’Isis in Afghanistan, gli Stati Uniti lanciano segnali che appaiono irrazionali a confederati e antagonisti.
Una riduzione della sicurezza potrebbe far riemergere l’Isis, smembrare le forze siriane democratiche, tra la componente sunnita e quella fedele al presidente Bashar al-Assad, intensificare le provocazioni iraniane e israelite, con un alto rischio di incidentie degenerazione in una contrapposizione aperta, o riaccendere la belligeranza turca nei confronti dei curdi. Tehran continua ad accumulare riserve missilistiche a ovest della Siria e rappresenta una sfida per Israele. Con una smobilitazione statunitense, estenderebbe l’accesso al confine siriano-iracheno per il trasporto sicuro di armamenti e uomini fra Baghdad e Damasco e troverebbe la via libera sulla frontiera siriano-giordana, orapiantonata dall’esercito americano. Ankara, dal canto suo, non ha la capacità di affrontare l’Isis nel lontano sud della Siria e il proposito sarebbe sempre subordinato all’azione di contenimento dei curdi nel nord-est.
L’unica opzione, quindi, per non lasciare il destino della Siria nelle mani di Tehran e di Ankara, è quella di assicurarsi l’appoggio di Mosca. Alla Russia non conviene vedere ritardata l’esecuzione degli aiuti internazionali per la ricostruzione della Siria. Alla pari degli Stati Uniti, non vuole avere a che fare con un nuovo focolaio dell’Isis, ed ha già installato unità speciali e servizi privati, nella valle dell’Eufrate. Soprattutto, è intenzionata a prevenire maggiori ostilità fra Iran e Israele, che sminuirebbero i risultati della campagna in Siria e il proprio status di superpotenza. Non da meno, lo stesso Israele, così come la Giordania e le monarchie del Golfo, contano sull’azione di Mosca. La Russia dovrebbe, però, impegnarsi a contenere l’Iran a est, e tenere gli hezbollah lontani dala Giordania, anche se il suo vantaggio geopolitico, questa volta al contrario degli Stati Uniti, non è quello di controllare tutta la Siria, e ha un peso relativo sulle decisioni di Tehran e sulla volatilità di Ankara.
La valutazione di fondo è che il ripiego americano sia tutto sommato una pessima idea. Le guerre finiscono per un superiore uso della forza o per un progressivo logoramento, o ancora per l’effetto di negoziazioni. Il conflitto siriano lascia intravedere almeno due di queste condizioni, ma una finestra per la terza si preannuncia breve e colma di insidie. In un pantano di questa portata, non si può prescindere da una cooperazione diplomatica e sul terreno di Stati Uniti e Russia.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.