«Il sale della democrazia moderna si identifica con quei cittadini che non leggono altro se non le pagine sportive e le vignette comiche. La democrazia non è quindi governo di massa, ma cultura di massa», scriveva Leo Strauss in Liberalismo antico e moderno. D’altronde, qualche pagina dopo era egli stesso ad ammettere che «non dobbiamo aspettarci che l’educazione possa mai diventare educazione universale. Rimarrà sempre e soltanto l’impegno ed il privilegio di una minoranza». In queste parole, evidentemente, non si possono non percepire echi dal sapore elitista; tuttavia, un argomento analogo era già stato sposato ad esempio da un liberale come Tocqueville ne La democrazia in America. Possiamo leggere, infatti, che «è impossibile elevare la cultura del popolo oltre ad un certo livello», giacché l’istruzione richiede tempo, desiderio di ampliare il proprio bagaglio culturale – in quanto ritenuto non solo utile per una qualche ragione, dunque considerato esso come un mezzo, ma soprattutto come un fine in sé – e pure una certa dose di umiltà.
La conquista democratica sarà allora soggetta – come tutto ciò che l’uomo ha conquistato con sudore, ingegno e disponibilità alla fatica – a continui traballamenti interni. Si tratta, in altre parole, di una costruzione instabile e mai definitiva. Con le fulgide parole di Sartori, possiamo ben asserire che «la democrazia è un’apertura di credito all’homo sapiens, a un animale abbastanza intelligente da saper creare e gestire da sé una città buona. Ma se l’homo sapiens è in pericolo, la democrazia è in pericolo». Detto altrimenti, essa necessita di un grado minimo di comprensione dei suoi principi e del suo funzionamento. Non può, dunque, essere valutata per quello che non può dare. In altri termini, non la si può sovraccaricare di aspettative, né, tantomeno, si può pretendere da lei che dia vita a una sovranità esercitata direttamente dal popolo. Come disse magnificamente Bobbio, «nulla rischia di uccidere la democrazia più dell’eccesso di democrazia». Il «perfezionismo democratico», come ammoniva Sartori, è un rischio costante, soprattutto per chi si fa blandire dai suadenti richiami demagogici degli “amici del popolo”.
Già, le élite e i leader politici, presunti “amici” o “nemici” del popolo che siano. Sartori, citando le parole di James Bryce e Salvador de Madariaga, vide come una democrazia liberale, forse ancor di più delle non-democrazie, non potesse fare a meno di leadership di qualità. Ed è ora tornato sul tema Lorenzo Ornaghi, con un bell’intervento sull’edizione weekend de “Il Foglio” che riprende le tesi espresse da Max Weber nella sua celebre lezione tenuta a Monaco ormai un secolo fa. In Politik als Beruf il sociologo tedesco vide in tre le principali qualità che un uomo politico deve possedere: passione, senso di responsabilità e lungimiranza. Con la prima, Weber intende «la dedizione appassionata a una “causa”». Non una semplice passione incanalata nel vuoto, come egli stesso aggiunge, bensì una dedizione matura che fa della necessaria responsabilità «la stella polare decisiva dell’agire». E siamo così arrivati alla seconda caratteristica richiesta a un politico di qualità. Infine, la lungimiranza, ovvero «la capacità di far agire su di sé la realtà con calma e raccoglimento». Dopo tutto ciò, Weber ammette che un leader politico degno di questo nome deve rifuggire una tentazione sempre presente nell’uomo: la vanità, «nemica mortale di ogni dedizione a una causa e di ogni distanza e, in questo caso, della distanza rispetto a se stessi».
Proviamo noi ora a domandarci di queste tre qualità, senza tralasciare la vanesia pulsione, quali siano presenti nel panorama politico attuale, soprattutto, ma non solamente, del nostro Paese. Tocca constatare che, purtroppo, la qualità delle nostre leadership è sempre più carente. I social network, come già ampiamente riconosciuto, non fanno altro che toccare le corde della spocchia di tutti noi. Ci sentiamo in diritto di poter esprimere l’opinione su qualunque tematica: dopo tutto, non servono proprio a rendere una società più equa e orizzontale, quindi democratica? Certamente, essi sono stati una grande innovazione per una molteplicità di motivi. Dunque, non possono essere considerati come una negatività in sé. Dipende, però, come essi vengono impiegati. In altri termini, fondamentale è se gli utenti riescono, ovvero si impongono, dei limiti al loro utilizzo, e non si auto-idoleggiano. Come ha scritto Cass Sunstein nel suo # Republic. La democrazia nell’epoca dei social media (il Mulino, 2017), la libertà di espressione valorizzata dai social va in buona misura accompagnata da «una cultura della curiosità, dell’apertura e dell’umiltà». Altrimenti, si verifica ciò che è sotto i nostri occhi, cioè a dire l’esatto contrario di quello detto poc’anzi: chiusura ed ermetismo del pensiero, ottusità e tracotanza, con la conseguente polarizzazione del dibattito (se così si può chiamare l’accozzaglia di strepiti che ne viene fuori). E i leader?
I leader, se sono veramente tali, non possono diventare semplici follower. La ribellione delle masse di cui parlava Ortega y Gasset, si accompagna quasi di necessità, o forse è proprio anticipata, dalla «diserzione delle minoranze direttrici». Queste ultime hanno smesso di riflettere sul futuro e di ponderare attentamente sul da farsi. Si dirà, le tempistiche della politica e del mondo globalizzato corrono sempre più velocemente e non lasciano spazio alla riflessione tranquilla e misurata. Può darsi; ma i leader politici abdicano al loro ruolo se si lasciano fagocitare dalle urla smisurate di un elettorato sempre più impaziente e privo di quei necessari limiti da autoimporsi. Come nota con acume Giovanni Orsina ne La democrazia del narcisismo, la democrazia liberale «da un lato garantisce agli esseri umani ch’essi possono essere qualsiasi cosa desiderino, teoricamente senza alcun limite. Dall’altro, però, funziona unicamente se essi desiderano entro certi limiti». Detto altrimenti, «la promessa pubblica di autodeterminazione [si regge] sulla capacità di autolimitazione». Pertanto, certamente i singoli individui non possono chiedere alla democrazia più di ciò che essa può dare. Contemporaneamente, nondimeno, chi è stato chiamato a svolgere il ruolo di leader non può assecondare i desideri sfrenati che pervengono dal basso.
Infatti, scrive Sartori in Democrazia e definizioni, «se nessun esperimento storico più di quello democratico vive in bilico sul delicato equilibrio tra “essere” e “dover-essere, è piuttosto evidente che solo élites consapevoli instaurano e conservano la democrazia, che solo minoranze dirigenti esperte e responsabili possono sfuggire al vortice del perfezionismo democratico». Va evitata, per dirla con Röpke, la degenerazione antropologica dell’homo sapiens in “homo insipiens gregarius”, caratterizzato da appiattimento e livellamento intellettuale, nonché da quella mancanza di senso del limite che lo può condurre alla rovina. D’altronde, come notava bene Edmund Burke, «la società non può esistere se non si pongono dei freni allo scatenamento degli appetiti; […] è nell’ordine delle cose che gli uomini privi di senso del limite non possano essere liberi. Le loro passioni forgiano le loro catene». Impegniamoci a riscoprire l’umiltà e il senso del limite propri di individui necessariamente ignoranti e fallibili. Rifuggiamo, dunque, l’ebbrezza narcisistica: ne trarremo giovamento tutti, tanto in veste di singoli quanto come comunità.
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico