Uno. La guerra in Yemen – catastrofe i cui numeri sono stati ben illustrati dai mass media, è un disastro per gli interessi di sauditi e americani. L’errore strategico è stato di tale portata da aver prodotto proprio quei risultati che intendeva scongiurare. La minoranza houti ha sviluppato una maturità bellica superiore a quella che aveva all’inizio degli scontri. L’influenza iraniana si è estesa nella regione e l’asse fra houti ed hezbollah libanesi si è rafforzato. Per quattro anni l’Arabia Saudita ha annunciato che la vittoria fosse imminente con un progressivo calo di credibilità.
Due. Il conflitto palesa enormi complessità sia interne sia esterne e i colloqui per una tregua bilaterale stanno prendendo troppo tempo per una popolazione allo stremo. La risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che impone agli houti una resa incondizionata, non è realistica, considerata la porzione di territorio da loro controllata, e il fatto che una riconciliazione duratura richiede una definizione negoziata. Il panorama è complicato da un movimento separatista attivo dal 1990 e l’esistenza di cellule di al-Qaeda e dell’Isis che hanno occupato aree da cui sono stati sferrati attacchi mortali. Anzitutto, lo Yemen è geo-politicamente importante in quanto collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden, per il quale passa gran parte del trasporto mondiale del petrolio.
Tre. Gli sforzi delle Nazioni Unite vertono, fra gli altri, sul tema della leadership. Il presidente dello Yemen, Abd-Rabbu Mansour Hadi, inviso e malato, è considerato rimpiazzabile dagli attori in gioco. Tuttavia, oggi l’unico possibile candidato tecnico per la successione, il generale Ali Mohsen, non gode né della fiducia degli houti né di quella degli Emirati Arabi Uniti, ragguardevole membro della coalizione saudita in Yemen. Gli houti non hanno dimenticato le brutali incursioni, guidate dal generale fra il 2004 e il 2009; mentre gli Emirati non possono ignorare il suo vincolo alla Fratellanza Islamica, di cui sono strenui oppositori. Senza un sostituto autorevole, che sappia guadagnarsi il sostegno di un ampio spettro della cittadinanza, nonché dei “paesi amici”, al tavolo della pace rimane scoperto il posto chiave.
Quattro. Nel vuoto lasciato dal mancato scioglimento dei dissidi si è installata la Russia come potenziale mediatore. Il ministro degli affari esteri Sergei Lavrov ha dichiarato la disponibilità a contribuire cosicché la situazione transiti da uno scenario di contrasto a uno politico. In concreto, la Russia ha posto il veto a una risoluzione del consiglio di sicurezza sullo Yemen che i critici hanno definito troppo severa con Iran e houti e troppo favorevole alla coalizione saudita. L’intraprendenza russa è indicativa di un cambio degli equilibri di potere in medio oriente, Siria docet.
Cinque. Le potenze occidentali che alimentano il conflitto, Stati Uniti e Regno Unito, si sono sottratte alle proprie responsabilità. Trump ha protetto il principe ereditario Mohammad bin Salman persino davanti all’evidenza del suo coinvolgimento nell’uccisione del giornalista Khashoggi – va comunque ricordato che l’assistenza militare fu instradata da Obama, con intelligence, forniture missilistiche e pezzi di ricambio per la forza aerea per miliardi di dollari. Il Regno Unito ha persino boicottato le investigazioni dell’Onu sui crimini di guerra in Yemen. Ciò nonostante, il congresso americano, a guida democratica dopo le elezioni di medio termine, è intenzionato ad adottare azioni punitive contro l’intervento dell’Arabia Saudita. E da ottobre dell’anno appena concluso, si era già mosso l’esecutivo. Il segretario di stato, Mike Pompeo, e l’ex segretario alla difesa, James Mattis, si sono adoperati affinché le fazioni interloquiscano e, a novembre, hanno bloccato il programma di rifornimento in volo dei caccia della coalizione. D’altra parte, l’Arabia Saudita e i suoi alleati accetteranno la pacificazione solo nel momento in cui gli Stati Uniti interromperanno la collaborazione necessaria a mantenere in funzione l’apparato offensivo ed è in dubbio che l’amministrazione Trump sia disposta a patrocinare la contesa a tempo indeterminato.
L’opzione ideale sarebbe un ritiro unilaterale dell’Arabia Saudita, su sollecitazione di Trump. Questa iniziativa in prima istanza allevierebbe le sofferenze dei civili, sfiderebbe houti e iraniani ad agire di conseguenza, e darebbe quindi un impulso serio al dialogo. L’idea può apparire scapigliata vis-à-vis l’impunità dei sauditi e il progetto statunitense che li vede al centro della questione mediorientale, nonché l’aggressività di entrambi gli alleati verso l’Iran. Nondimeno, la guerra in Yemen, che nell’attualità non può essere vinta da alcuno, e potrebbe protrarsi per un numero indefinito di anni, costa al governo dell’Arabia Saudita intorno ai 6-7 miliardi di dollari al mese, oltre a un grave danno di immagine internazionale, in una fase in cui si pretende lanciare un’inedita visione economica e sociale; e Trump, in difficoltà sul terreno domestico, sta subendo forti pressioni dal congresso e l’opinione pubblica per mettere fine alla peggiore crisi umanitaria che il mondo abbia mai visto. Dal canto loro, gli houti, con il prolungarsi delle ostilità, e il consolidamento e allargamento delle posizioni conquistate, potrebbero acquisire uno status oltremodo favorevole in future negoziazioni. Se, invece, rifiutassero di pareggiare le nuove condizioni approntate dall’Arabia Saudita, rovescerebbero i piani, assumendo lo scomodo ruolo di aggressori.
L’intervento si è già dimostrato controproducente. E il rischio che corre l’Arabia Saudita, con una crescente presenza di milizie sul proprio confine, si va acutizzando nella misura in cui la guerra procede, anche se il contesto è tale da prevedere la continuazione di una pugna intestina di diversa intensità, pur all’indomani di un’auspicata fine delle ostilità. La minaccia iraniana – il cui grado venne esagerato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per giustificare la campagna, non è più una ragione valida per procrastinare il cessate il fuoco. Infatti, un processo guidato dalle Nazioni Unite ne diminuirebbe l’espansione, mentre il conflitto yemenita per l’Iran è divenuto una modalità a basso costo per dissanguare il suo rivale regionale.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.