Se c’è una cosa piuttosto evidente, di questi tempi, è che lo spazio per i liberali è sempre più angusto. La si può considerare un’affermazione pessimistica ed eccessiva e forse è così; d’altro canto, però, potrebbe anche identificare una pura e semplice constatazione della realtà in cui ora ci si muove. È bene sottolinearlo: il liberalismo in Italia (e non solo) non ha mai goduto di popolarità, e pure comprensibilmente. È difficile essere liberali. Significa avere come riferimento l’individuo e, dunque, non idolatrare alcun potere che possa in qualche modo calpestarlo. Significa, in definitiva, maturare responsabilità e crescere interiormente qualora si fallisca in qualche progetto: non è andando in cerca di presunti colpevoli esterni che si progredisce; tocca piuttosto guardarsi dentro e autocorreggersi. Significa non spiegare fenomeni sociali come semplicistico frutto di azioni orientate aprioristicamente a quel determinato scopo (vedasi il fenomeno del complottismo tanto in voga), bensì come esito inintenzionale dell’intersezione e della coagulazione di molteplici azioni individuali intenzionali. Significa non avere certezze, ma coltivare la virtù del dubbio, che è poi il motore della scienza. Significa, in campo economico, lasciare spazio alla libera creatività individuale e affidarsi al mercato. Infine, un liberale non può che rispettare il pensiero altrui e in politica, di conseguenza, onorare le regole del gioco e lo stato di diritto che ci protegge tutti dall’arbitrio di chicchessia.
Ebbene, è di qualche giorno fa un dibattito a distanza, tutto interno al campo liberale, sulla situazione in cui la politica italiana si trova e sulle sfide illiberali che si stanno palesando. Apertosi con un’intervista concessa il 24 agosto a “Il Foglio” da Giovanni Orsina – storico e, per estensione, politologo di indubbia qualità –, è continuato il 28 agosto con la risposta allo stesso quotidiano di un altro eminente studioso qual è Angelo Panebianco. Pur se vi siano stati interventi successivi di altri opinionisti, mi sembra significativo focalizzarsi sulle due interviste sopramenzionate.
L’essenza della questione è se vi sia lo spazio e l’opportunità di confrontarsi o meno con chi in Italia viene identificato come “populista”, ovvero M5S e Lega. Orsina, mettiamola così, è più rassegnato e conciliante, ma non nel senso che è dell’idea di saltare sul carro del vincitore. Direi che la sua posizione può considerarsi come fondamentalmente connotata da pessimistico realismo. Egli sostiene, infatti, che è inutile opporsi frontalmente a chi tiene in mano ormai il 60% dei consensi (secondo gli ultimi sondaggi condotti), poiché questo progetto sarebbe destinato a infrangersi con la cruda realtà. Un’azione più utile e proficua potrebbe consistere, allora, nel tentativo di aprire un dialogo e «romanizzare i barbari». Panebianco, per converso, afferma che sia alquanto irragionevole cercare di confrontarsi con putiniani (Lega) e peronisti (M5S), giacché allergici, o forse costitutivamente alieni, all’alfabeto liberaldemocratico. Crede, in altre parole, che sia necessario spendersi attivamente affinché la democrazia liberale non cada sotto i colpi inferti dal moralismo giustizialista e anti-pluralista tipico dei populisti. Dunque, se il primo ritiene che il nostro regime politico possa resistere solo includendovi anche i “barbari”, il secondo, al contrario, è dell’opinione che essi lo distruggeranno se non verranno arginati adeguatamente e in tempo utile.
La domanda a questo punto sorge spontanea: ma questi populisti, o come li si voglia chiamare, sono in grado di fare i conti con un regime costituzional-pluralistico oppure, in virtù della loro (presunta) superiorità morale (soprattutto pentastellata), tendono inevitabilmente a passare sopra a chi non è dei loro? Questa domanda è cruciale, poiché dalla natura di questi movimenti dipendono anche i loro comportamenti futuri. I segnali, diciamo così, non sono confortanti. Il retroterra valoriale dei movimenti in oggetto non sembra affatto conforme alla dialettica liberaldemocratica. Anche se, e non per giustificare i populisti, tocca comunque sottolineare che l’Italia non è mai stata un Paese in cui la dialettica liberaldemocratica ha trovato terreno fertile.
Come rileva da parecchio tempo Dino Cofrancesco (si veda in particolare il decalogo del “canone ideologico italiano” da lui stilato e pubblicato su “Il Dubbio” dell’11 marzo 2018), altro stimabile studioso di area liberale, la cultura politica italiana è piuttosto (eufemismo) restia a rispettare le regole del gioco e la lotta politica si configura sempre come una lotta campale tra il Bene (chi la pensa come me) e il Male (il Nemico da abbattere), dimentica, in tal modo, della lezione weberiana. In questo senso, i populisti non hanno avuto buoni esempi passati e ciò non fa che rinforzare un loro tratto peculiare, ovvero la marcata ostilità per il pluralismo, giacché il popolo o è monolitico o non è. Se a ciò si aggiunge che la politica tradizionale si è fatta sempre più oligarchica e, con le parole di Peter Mair, viene «considerata sempre meno come qualcosa che appartiene alla cittadinanza o alla società e, al contrario, come un qualcosa nelle mani dei politici», il quadro non può che essere cupo.
Detto altrimenti, le responsabilità non stanno da una sola parte. Da un lato, la politica tradizionale dovrebbe tornare a rappresentare, ad includere, parlando di contenuti e non discutendo esclusivamente di nomi e facce. Infatti, se in una cosa gli studiosi di quel vago e brumoso fenomeno che è il populismo sono abbastanza concordi è nel vederlo come il sintomo o la “febbre” di una democrazia malata, e non la causa primigenia. Dall’altro lato, i movimenti ostili alla democrazia liberale o introiettano i fondamenti della società aperta e dello stato di diritto – i quali, come detto, vanno meglio introiettati da tutte le forze politiche – oppure ci condurranno nel baratro dell’intolleranza e della società chiusa. Infine, noi cittadini dovremmo renderci conto che la politica non è tutto e non è da essa che traiamo la nostra dignità né la nostra identità personale. Inoltre, e non è poco, manca dei poteri che noi spesso le attribuiamo quasi che ci possa salvare dalla catastrofe, quando più spesso è essa stessa che ci conduce verso non piacevoli lidi.
Pertanto, serve con urgenza – in realtà è da decenni che ne avremmo bisogno – sviluppare una cultura anti-moralistica che incentivi un dialogo sano e rifiuti discorsi da scontro finale, quasi che la politica diventi, con Alasdair MacIntyre, «una guerra civile condotta con altri mezzi»; una cultura che promuova il pluralismo e non imponga in modo per l’appunto moralistico e manicheo il monismo. Una cultura, in definitiva, che rifugga l’ideale democratico declinato in modo assoluto e totalizzante, che eviti di riempirsi la bocca di soggetti collettivi inesistenti che hanno legittimato nel passato la conculcazione dell’individuo, giacché, se così fosse, si spalancherebbero le porte di una democrazia illiberale o, per dirla con Tocqueville, di una «tirannide democratica» sideralmente distante dalla «libertà democratica» propria di una democrazia tendenzialmente liberale. Vale la pena concludere, a questo punto, con una piana ma quanto mai efficace sintesi di Max Weber: «la democrazia sta bene, ma al suo posto». Prima lo si tornerà a capire, prima si eviteranno degenerazioni pericolose.
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico