Capita, a volte, che nel pletorico magma delle novità editoriali vi siano testi che spiccano mettendo ben in luce problemi contemporanei assai gravosi. In questo caso, si vuol parlare dei “mostri” che la democrazia coltiva dentro di sé, ovvero delle degenerazioni che lo spirito democratico in qualche modo presuppone e alleva, su tutti l’egualitarismo spinto al parossismo.
Due sono i libri a noi coevi che, a mio avviso, si dimostrano sommamente benefici per cercare di meglio comprendere cosa stiamo vivendo. Il primo è di un brillante storico contemporaneista della LUISS Guido Carli di Roma, Giovanni Orsina, il quale va ricordato, anche se non solo, per quello che probabilmente è il meno partigiano, e dunque il più lucido e utile studio sul fenomeno del “berlusconismo” (Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, 2013). Da qualche mese è in libreria il suo ultimo lavoro che ci aiuta a capire il presente democratico, o forse, e più semplicemente, le tendenze insite nello stesso regime politico: La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio, 2018).
Complementare al libro appena citato è La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia (trad. it., Luiss University Press 2018), scritto da Tom Nichols, professore presso l’U.S. Naval War College e alla Harvard Extension School. Ebbene, a detta di chi scrive, questi due volumi andrebbe letti congiuntamente poiché si rinforzano l’uno con l’altro. In altre parole, la loro unita lettura consente una più lineare comprensione del fenomeno in oggetto, giacché, se il primo si focalizza soprattutto sulla parte teorica – benché vi sia un interessante capitolo, di cui tuttavia non mi occuperò, dedicato all’analisi di Tangentopoli a partire dagli strumenti concettuali forniti da Elias Canetti – il secondo si concentra maggiormente sulle ricadute empiriche dell’egualitarismo sfrenato, e in particolare sulla valutazione del cittadino massificato nei confronti della scienza.
La democrazia del narcisismo
Orsina si propone di spiegare come la politica sia in crisi, non già partendo da una disamina dei fattori ad essa esogeni, bensì andando a scandagliare il problema alla radice, cioè a dire al cuore della democrazia medesima. Rifacendosi al noto “dilemma di Böckenforde” – «Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire» – vede come la liberaldemocrazia faccia delle promesse che non può assolutamente mantenere. In altre parole, fondandosi su una (imperfetta e difficilmente amalgamabile) mescolanza di eguaglianza e libertà, essa fa credere che ciascun cittadino abbia un’eguale e totale padronanza della propria esistenza e possa desiderare tutto ciò che vuole. In tal modo, viene allevato uno spirito profondamente capriccioso, il quale, divorato da una costante e crescente bramosia, è spinto alla perenne insoddisfazione, all’invidia che l’egualitarismo democratico incentiva e alla ricerca di colpevoli per la sua mancata realizzazione. Come osserva l’autore, il delicato meccanismo liberaldemocratico «funziona unicamente se essi desiderano entro certi limiti», se «la promessa pubblica di autodeterminazione [si fonda] sulla capacità privata di autolimitazione». La compassionevole e melliflua retorica dell’aver diritto illimitato a tutto innesta una dinamica perversa che, se da un lato spinge a ricercare sempre maggior assistenza statale, dall’altro questa, non riuscendo a far fronte alle sempre più pressanti richieste, diviene il capro espiatorio su cui riversare fiele, giacché ha tradito le sue promesse. Nasce e cresce, così, l’antipolitica, gemella allevata dalla politica durante la sua azione volta a blandire e titillare l’elettorato.
In effetti, l’unico modo per tenere sotto controllo le derive democratiche pare, come conclude l’autore, un realistico disincanto nei confronti del regime politico in oggetto. Ciò significa, giocoforza, tornare consapevoli che la politica non può donarci la certezza né, tantomeno, aiutarci nel raggiungimento della perfezione. Analogamente, va combattuta la degenerazione che segue all’eguaglianza politica. Il pericolo, infatti, è che si manifesti una massa di individui omogenei e uniformi, come già osservava Tocqueville, autocentrati e incapaci tanto di differenziarsi – ancora l’autore de La democrazia in America: «la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’ambito di questi limiti lo scrittore è libero; ma guai a lui se osa uscirne. Non ha da temere auto-da-fé, ma è esposto ad avversioni di ogni genere e a persecuzioni quotidiane. […] Egli allora cede, si piega sotto lo sforzo quotidiano e rientra nel silenzio, come se provasse rimorso di aver detto il vero» – quanto di giudicare il mondo in maniera non viziata dalla sindrome derivante dall’egualitarismo sfrenato: quella del narcisista. La specificità di questa figura, nota lo storico, «consiste nel fatto che la sua ossessione di sé è fondata su una distorsione cognitiva: l’incapacità di percepire la propria persona e la realtà come due entità separate e autonoma l’una dall’altra – di distinguere il dentro dal fuori, l’oggettivo dal soggettivo». Ora, se risulta assai complesso sceverare l’oggettivo dal soggettivo, dal momento che è alla base del giudizio dal reale sta il “politeismo dei valori” di weberiana memoria, è pur evidente che il problema di un’inabilità dell’individuo democratico a giudicare coscienziosamente e criticamente la realtà esiste eccome.
Si tratta, come ricorda Orsina, di un individuo non distante dal “bimbo viziato” di cui parla Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse e Huizinga ne La crisi della civiltà – di cui tratteremo appositamente in un altro intervento – asserendo che «la vita per lui è diventata un giocattolo». Perché? Molto brevemente, la risposta è da ricercare ancora una volta in seno alle dinamiche democratiche. Come abbiamo già visto, la democrazia promette il raggiungimento della felicità individuale, il continuo miglioramento del benessere della società e, si badi bene, contribuisce al livellamento (mentale, spirituale e materiale) delle persone. All’eguaglianza politica fa seguito l’anelito verso un sempre più totalizzante appiattimento delle condizioni. Per dirla con Tocqueville, «il desiderio di uguaglianza diventa sempre più insaziabile, a mano a mano che l’uguaglianza si fa più grande». In questo modo, diviene sempre meno digerita ogni tipo di autorità, vissuta come ingiusta e traditrice dell’ideale democratico. Gli esperti non esistono, la “legge ferrea dell’oligarchia” di Michels diventa obsoleta – benché vediamo con chiarezza che anche i movimenti “anti-casta” tendano ad essere guidati da pochi, magari dietro le quinte – dalla democrazia limitata (ammesso che quella attuale lo sia davvero) e rappresentativa si vorrebbe passare a una sempre più capillare azione diretta dell’elettorato, dimentichi che, per dirla con Sartori, a «una ipertrofia della vita politica corrisponde inevitabilmente l’atrofia della vita economica», in quanto la prima presuppone ponderazione, riflessività e quindi tempo. In altre parole, il prodotto che ne scaturisce è l’“uomo-massa” orteghiano, il quale «è chiuso in se stesso; non ascolta; rifiuta le interpretazioni e valutazioni della realtà che gli provengono dall’esterno; si fida soltanto del proprio giudizio». In sostanza, «è intellettualmente una monade», ritiene di bastare a se stesso ed è come se avesse la vista e la mente obnubilate. A questo punto, entra in gioco il libro di Nichols.
L’era dell’incompetenza
Lo studioso americano, pur riferendosi alla realtà del suo Paese, fotografa molto lucidamente la situazione che si è venuta a creare pressoché ovunque. «Siamo orgogliosi di non sapere le cose. […] Tutte le cose sono conoscibili e ogni opinione su un qualsiasi argomento vale quanto quella di chiunque altro». È l’egualitarismo giunto al culmine. Infatti, continua l’autore, si tratta di «una miscela di narcisismo e di disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione […] di un’arroganza infondata, dello sdegno di una cultura sempre più narcisistica che non riesce a sopportare neanche il minimo accenno di diseguaglianza, di qualsiasi tipo essa sia». In altri termini, è un sovvertimento della realtà moderna, la quale è sì fondata sull’individualismo, ma non certo sull’ottusità di monadi autoreferenziali che si percepiscono alla stregua di tuttologi capaci di pronunziarsi su tutto. «È fondamentalmente un rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva», proprio così. Abbiamo smarrito il significato autentico di scienza e quello di razionalità e ciò rischia di farci ricadere in periodi bui del passato che pensavamo di esserci lasciati alle spalle.
I problemi affrontati dallo scienziato politico sono molteplici, ma il fulcro di tutto è quello relativo alla concezione di scienza che si è venuta a delineare. «I cittadini non interpretano più la democrazia come una condizione di uguaglianza politica», bensì «come uno stato di effettiva uguaglianza, in cui ogni opinione vale quanto le altre su quasi tutti gli argomenti del mondo». Siamo passati, dunque, dal rischiaramento delle menti, dalla conquista di una ragione in grado di guardare al reale con lucidità, sebbene con la naturale stortezza che caratterizza qualsiasi cosa umana, all’idolatria della ragione, al suo abuso che ci porta a ritenere di poter tutto afferrare e poter tutto dominare, dirigendoci verso l’irrazionalismo più bieco e antimoderno. L’evidente pericolo è che si torni a una società chiusa in cui la ragione offuscatasi ci faccia tornare alla barbarie, a un mondo ammantato di pensiero magico-sacrale anti-scientifico. Molti ritengono, infatti, che la scienza ci dia risposte definitive, ci porti a conclusioni vere una volta per tutte. Ma, per l’appunto, questa è un’opinione oltremodo nefasta.
«La scienza non posa su un solido strato di roccia. […] È come un edificio costruito su palafitte». L’ammonimento di Popper è più che mai attuale, vista la marcata ostilità nei confronti degli esperti e della politica incapaci di garantire certezza. La scienza è prima di tutto un metodo, un processo attraverso il quale, mediante congetture e confutazioni, tentativi ed errori, si cerca di spiegare la realtà e accrescere così la nostra conoscenza. Il fatto che essa non porti a conclusioni certe e che anzi spesso sbagli, conduce allo sfavore di chi si sente come preso in giro, poiché ha una sua opinione del tutto errata. Come ci dice Nichols, «gli esperti non possono garantire i risultati. Non possono promettere che non commetteranno più errori. […] Possono promettere soltanto di stabilire regole e metodologie che riducono le probabilità di simili errori e di commetterli con meno frequenza di quanto potrebbe fare un profano». Ancor di più, con Whitehead possiamo dire che «il panico dell’errore è la morte del progresso».
In altre parole, «la verità è che non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui». Torna, insomma, il problema del narcisista di cui già si è detto. Egli non si rende conto che la “democratizzazione fondamentale” in politica non equivale a una democratizzazione generale del sapere. Egli non è uno scienziato, giacché manca della formazione, della pratica e dell’esperienza per operare in modo sistematico in un determinato campo. Il problema è che l’ebbrezza dell’uguaglianza, della prosperità raggiunta, il senso di onnipotenza derivante dai meravigliosi mezzi tecnologici che all’apparenza ci mettono a disposizione tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno incentivano la nostra presunzione di sapere. Come riporta l’autore, si aggiunge, inoltre, quello che è stato ribattezzato “effetto Dunning-Kruger”, dai nomi dei ricercatori di psicologia che l’hanno scoperto. Questo spiacevole fenomeno consiste, in poche parole, nel non rendersi conto di essere talmente incompetenti e ottusi da considerarsi, al contrario, brillanti e geniali. Una distorsione cognitiva per la quale le persone da essa toccate «non solo giungono a conclusioni erronee e compiono scelte infelici, ma la loro incompetenza li priva della capacità di rendersene conto». Anche se non solamente, questa involuzione è imputabile alla sempre più scarsa qualità dell’istruzione, nonché a un’educazione non certamente adeguata.
Nichols è molto critico della pratica per cui l’università «non è più un passaggio alla cultura della maturità ma solo una tattica per ritardare l’età adulta». Dall’essere fucina di mente attive e creative, è diventato un mero business che, a causa della sua massificazione, dà l’illusione che basti iscriversi e le porte della conoscenza siano immediatamente accessibili. In teoria, dovrebbe essere «il luogo in cui una persona si lascia alle spalle l’apprendimento dell’infanzia, basato sulla memorizzazione e la ripetizione, e accetta l’ansia, il disagio e la sfida della complessità che conduce all’acquisizione di una conoscenza più profonda», che, giova sottolinearlo, non può mai essere definitiva e completa. Purtroppo, però, «anziché liberare gli studenti dal loro solipsismo intellettuale, l’università moderna finisce per rafforzarlo». Anziché coltivare il seme di «titubanza, vacillamento, dubbio, di fronte alla tastiera delle molteplici possibilità del pensiero», che è poi il tratto tipico della ragione moderna, adulta e matura, per dirla con Ortega, viene allevata una mente sterile, puerile e incapace di pensare criticamente e creativamente, di scontrarsi con opinioni diverse. In tal modo, invece di abbracciare il pensiero di Whitehead secondo cui «uno scontro tra idee non è un dramma, bensì un’opportunità», è sempre più comune sviluppare la tendenza del “bias di conferma”, per il quale si cercano «solo informazioni che confermano ciò in cui crediamo», si accettano «soltanto i fatti che rafforz[a]no le spiegazioni che preferiamo», si scartano «i dati che mettono in discussione ciò che già accettiamo come verità». Insomma, l’esatto contrario del metodo scientifico. Non è un caso, allora, se imperversano teorie complottistiche, ritornano le superstizioni e attecchiscono leggende popolari, giacché il narcisista preferisce «credere a complicate sciocchezze anziché accettare che la situazione in cui si trova sia incomprensibile».
Oltre all’approdo all’università vissuto erroneamente come la fine e non l’inizio dell’istruzione, gioca un ruolo fondamentale la disponibilità di informazioni e sapere che internet ci mette a disposizione. Se, in parte come il mercato, esso è semplicemente un mezzo, «un recipiente, non un arbitro», la colpa della diffusione di false verità o informazioni errate, va attribuita in toto a noi che non siamo in grado di operare una selezione critica e scientifica. Infatti, come ricorda lo studioso, «la ricerca vera e propria è dura […] richiede la capacità di trovare informazioni autentiche, di riassumerle, analizzarle», e non basta semplicemente affermare “l’ho trovato su internet” affinché significhi che un fatto o una notizia sia vera. Siamo stati disabituati a faticare e non ci rendiamo conto che tutte le conquiste raggiunte sono il frutto di sforzi e impegni, progressi ma anche regressi.
Torniamo a ragionare
In sostanza, dobbiamo riappropiarci della consapevolezza dei nostri limiti. Dobbiamo tornare umili, tornare individui pensanti senza sovraccaricare la ragione di poteri di cui è intrinsecamente sprovvista. Dobbiamo tornare a utilizzare la ragione in modo critico, scettico e con modestia, evitando il dogmatismo manicheo e utopistico tipico di vate, presunti illuminati e profeti che minacciano di farci tornare indietro nel tempo, commettendo, con le incisive parole di Marcello Pera, «un delitto contro la ragione in nome di un incantesimo religioso». Va, altresì, ricucito il rapporto con gli esperti e la scienza, la quale, con le parole di Popper, è giocoforza «fallibile, perché la scienza è umana». Possiamo, inoltre, pensare di progredire solamente faticando e non dando per scontato nulla, nemmeno la conquista più banale. E chi promette la perfetta società e la totale eguaglianza è un ingannatore e promette ciò che non può essere mantenuto. Torniamo a un individualismo sano, attraverso un’educazione dei nostri limiti e un’istruzione che torni a svolgere l’obiettivo per cui esiste, ovvero allevare persone mature e adulte, e non narcisisti inadatti a preservare un mondo e una civiltà che, con le parole di Hayek, «nessuna mente ha progettato e che è cresciuta grazie agli sforzi liberi di milioni individui».
PhD candidate, Luiss Guido Carli, Roma. Tra gli interessi di ricerca: populismo, rapporto liberalismo/democrazia, pensiero liberale classico