Se si guarda anche in maniera superficiale a quali siano gli argomenti che stanno al centro non solo del dibattito politico (si pensi alla recente campagna elettorale) ma anche delle manifestazioni di piazza organizzate, di molti articoli “di fondo” dei giornali e persino di numerosi dibattiti tenuti nelle sedi universitarie, troviamo che tra essi ne spicca uno che in un modo nell’altro finisce per superare a livello di “visibilità” tutti gli altri e per raccogliere intorno a sé sia gli sforzi intellettuali che le passioni di coloro che si impegnano ad affrontarlo: si tratta dell’antifascismo.
La presenza diffusa in tutte le sedi citate di questo tema è andata ben oltre il periodo della ricorrenza del 25 aprile che certamente giustifica la memoria storica della liberazione dalla dittatura, ma che forse dovrebbe essere ricordata come fondazione della Repubblica democratica e solo secondariamente come cessazione del regime autoritario. Così come il Risorgimento viene celebrato come realizzazione dell’unità d’Italia e solo secondariamente come cessazione del dominio asburgico, borbonico o papalino.
Questa impostazione per così dire “antagonista” del dibattito, per cui non ci si schiera a favore di (“filo”) un qualcosa in cui si crede e che si approva (la democrazia, i diritti individuali, la giustizia sociale ecc.), ma contro (“anti”) un qualcosa che si condanna e si detesta, il fascismo, finisce spesso per assumere connotati tanto astratti e cangianti nelle affermazioni di coloro che nelle diverse sedi parlano dell’argomento, che ben difficilmente si potrebbe riconosce nella maggior parte di esse la descrizione di una realtà corrispondente a quella storica del regime che fu guidato da Benito Mussolini.
Un regime la cui condanna dovrebbe far parte del bagaglio fondamentale di valori di ogni persona (filo) democratica e (filo) liberale, ma la cui valutazione andrebbe correttamente circoscritta al ventennio e alle sue conseguenze dirette. Così tutto è fascismo: il razzismo presente purtroppo nell’umanità da tempo immemorabile, l’omofobia (da Lévy-Strauss a Freud), l’esser contrario a tutte le questioni di civiltà (gay, eutanasia, aborto,), la pari dignità tra le religoni, tra le associazioni. Alle posizioni di contenuto astratto oggi di moda, il fascismo assume invece caratteri quasi trascendenti e finisce per coincidere con il male assoluto.
Viene da chiedersi perché queste posizioni, pienamente rispettabili in quanto convinzioni personali dei singoli, ma discutibili per la loro sovraesposizione sociale, abbiano tanto successo nel mondo dei media, e in quelli della politica e della cultura, tenendo conto che peraltro esse lasciano quasi indifferente la gran parte della popolazione, alle prese con la stagnazione economica e la crisi dei valori e delle istituzioni, e finiscono per diventare delle opinioni di élite.
Certo, oggi non solo in Italia la cultura civile e politica è sempre più dominata da posizioni estreme spesso irragionevolmente critiche verso i valori su cui si fonda la civiltà occidentale in nome dei dogmi del “politicamente corretto”, solamente da noi però il dibattito assume questi contenuti metafisici e quasi “fideistici” (tipo “bisogna vivere un quotidiano antifascista” o “guardare il paesaggio con occhi antifascisti”: si è scritto anche questo), che purtroppo non è solo di fenomeni collettivi ma anche individuale (si pensi alla follia omicida di padri, madri, nei confronti di esseri innocenti come i figli di cui sono piene le cronache).
Questa particolarità non deve però sorprendere più di tanto, dato che essa rientra pienamente nella tradizione del nostro Paese. Da secoli infatti, nella Penisola esiste una cultura politica e civile basata sui compromessi, sull’applicazione variabile delle leggi, sull’obiettivo di mantenere la pace sociale senza scontentare troppo le parti in conflitto d’interessi (e soprattutto quelle più forti) che si è sempre sviluppata all’ombra di una contrapposizione tra valori tanto elevati quanto astratti, tanto assoluti e “non negoziabili” in teoria quanto adattabili alle diverse situazioni pratiche.
Così i guelfi e i ghibellini non di rado si spartivano le zone di influenza nell’epoca comunale (con frequenti passaggi di campo); l’Inquisizione decideva quali scienziati condannare e quali tollerare o favorire; i giacobini italiani sceglievano se accogliere o meno nelle loro fila i rampolli della nobiltà dell’ancien régime. Non ultimo lo stesso fascismo, che demonizzava le società liberali “plutocratiche”, decideva discrezionalmente quali iniziative individuali, imprenditoriali e scientifiche, promuovere e quali reprimere. Insomma la contrapposizione assoluta “senza se e senza ma” sui concetti astratti si è sempre sposata nel nostro Paese ai compromessi, solamente che questi compromessi molto spesso sono stati conclusi “dall’alto” dai potentati di turno, di fatto soffocando il legittimo confronto tra i diretti interessati.
Qualcosa di simile accade oggi, quando i dibattiti ad esempio sui limiti da porre all’immigrazione clandestina vengono spregiativamente definiti “razzisti” (intendendo ovviamente il razzismo come una forma di “fascismo”), o quando quelli sulle possibili modifiche ai poteri della strutture tecnocratiche dell’Unione europea vengono altrettanto spregiativamente definiti “sovranisti” (intendendo il “sovranismo” allo stesso modo), e gli esempi potrebbero continuare.
Tutto questo porta ancora una volta al risultato che le decisioni sui temi più importanti della vita politica e civile italiana, quali quelli cui si è appena accennato e molti altri, vengono di fatto sottratte al dibattito e quindi al giudizio dell’opinione pubblica (che sono concentrati sulla necessità di contrastare il sempiterno “fascismo”) per essere affidate ai compromessi e agli adattamenti stabiliti dalle élites culturali e di governo, che peraltro talora affermano esplicitamente che certe scelte non dovrebbero mai essere lasciate dalle decisioni popolari.
Nulla di nuovo quindi sotto il sole della società e della politica italiana? Nemmeno questo è vero: anche il nostro Paese risente in quest’epoca della crisi di valori che interessa tutte le società occidentali e del crescente distacco tra le suddette élites culturali e di governo e le popolazioni, e questo è uno dei motivi per cui i termini del dibattito civile e politico assumono quel contenuto “anti” di cui si è parlato all’inizio, un contenuto, questo sì, decisamente inusuale per la nostra tradizione che si sposa ad una situazione concreta dove i compromessi tra i diversi interessi in contesa non riescono più a soddisfare che pochi, e dove la torta da dividere (e non ci riferiamo solo ai beni economici in senso stretto, ma anche alle opportunità di vita, culturali e sociali) diventa sempre più piccola.
Con il risultato paradossale che l’antifascismo ha più visibilità oggi tra le persone che il fascismo lo hanno solo studiato sui libri, di qualche decennio fa tra coloro che il regime lo avevano vissuto e combattuto per davvero, e che si scontravano su concetti parimenti astratti, ma almeno formulati in positivo, quali quello della giustizia socialista o quello della libera solidarietà cattolica.
La condanna della dittatura è sempre un atto non solo giusto, ma anche necessario al fine di tutelare la democrazia, ma proprio i principi della democrazia imporrebbero di discutere e argomentare contro un’opinione politica o civile che non si condivide e non di cercare di zittire chi la porta avanti bollandolo come “fascista”, e gli stessi principi richiederebbero di rendere chiari i motivi e i termini delle soluzioni di compromesso (talora inevitabili nella vita politica e civile) tra posizioni diverse e non di giustificarle in modo acritico in nome del comune “antifascismo”.
Difficile distinguere gli “antifascisti” ossessivi, non di rado, in buona fede, dagli antifascisti milionari radical chic (per tutti la Boldrini), dagli antifascisti che si mobilitano nei momenti elettorali paventando la perdita del potere nel Governo, negli enti locali, nelle s.p.a controllate, nelle banche, etc.. Così candidamente una illustre professoressa dell’Università Sapienza di Roma ha riconosciuto l’errore boomerang di avere impostato la recente campagna elettorale su fascismo e antifascismo (per la verità dal Capo dello Stato a Matteo Renzi: “il fascismo non ha fatto nulla di buono”, “chi non è antifascista non è italiano”, tutti hanno bruciato il granellino di incenso all’antifscismo). Insomma bisogna aggiornare la celebre battuta di Flaiano, “conosco due tipi di fascisti: i fascisti e gli antifascisti”. L’arcipelago antifascista è molto più variegato.
Ad oltre settant’anni di distanza possiamo giudicare il fascismo in gran parte come il tentativo esplicito delle élites di allora di operare un compromesso tra gli interessi propri e quelli della popolazione senza il consenso di quest’ultima: siamo certi che oggi, grazie anche all’antifascismo astratto nei suoi contenuti e perennemente al centro del dibattito politico e culturale, non ci si stia incamminando, nonostante la buona fede di molti che si impegnano in questi dibattiti, verso qualcosa di pericolosamente simile?