Nel fondo pubblicato stamane (27 maggio ndr) dal Corriere della sera, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, prendendo spunto dalla situazione italiana ma facendo riferimento ad un fenomeno che non è solo italiano, osservano che i cosiddetti “populisti” non solo combattono le élites, ma, ed è questa a loro dire la novità, “rifiutano anche la competenza, cioè la conoscenza acquisita con l’istruzione e l’esperienza”. Osservano perciò, sconsolati, che oggi “pare che essere incompetenti, non avere una buona istruzione, non avere alcuna esperienza, sia un merito”.
La loro analisi è poggiata su dati e impressioni evidenti, e almeno in parte condivisibili: è anzi diventata una sorta di luogo comune intellettuale. Sarebbe però opportuno anche capire perché si è arrivati a tanto, usando un minimo di senso storico. Parlare genericamente di una “ribellione delle masse” significa infatti, a mio avviso, affrontare il problema solo da un lato: la “ribellione”, se ci è stata, si è accompagnata ad un opposto e speculare “tradimento delle élites”. Il quale si è consumato proprio perché queste ultime sono venute meno alla loro missione, intellettuale prima che politica.
Non dimentichiamo che il Novecento, il secolo scorso, è stato il secolo della politica, cioè della iperpoliticizzazione della società, ma anche il secolo in cui gli intellettuali hanno preteso, fallendo miseramente, di farsi “consiglieri del principe”: o direttamente, quelli più o meno “organici”, o indirettamente, sotto le vestigia niente affatto “neutrali” del “tecnico” o dell’esperto.
Ciò che è stata tradita è stata nientemeno che l’“autonomia della cultura”, che era poi l’ideale classico e non positivistico-razionalistico del lavoro intellettuale. Ne è risultata fuori una mezza cultura, un pensiero comune e conformistico, basato spesso su dati presuntivamente “oggettivi”.
Il pensatore americano Dwight Mcdonald ne illustrò i caratteri, in modo magistrale e ancora valido, nel suo classico saggio del 1960 intitolato: Masscut e Midcult. A partire da allora, la cultura, che è di per sé sforzo e sacrificio, è stata sempre più divulgata e trasmessa secondo canoni formali (ad esempio quelli certificati da un test o da un curriculum (per restare nell’attualità politica) che poco hanno a che fare con il suo valore specificamente spirituale. La gente semplice, che non ha gli strumenti per giudicare, ha così ritenuto che quella proposta, attraverso i media, da intellettuali à la page fosse la vera cultura, e che bastava andare ad ascoltare una “lectio magistralis” di un “professore emerito” (l’enfasi non difetta certo nei nostri tempi), ad esempio in uno dei tanti festival che si svolgono in giro per l’Italia, per acquistarne un po’. Non sapendo che, in questo modo, non solo non si acquista un bel nulla, ma finisce per farsi un’idea sbagliata del lavoro intellettuale, il quale, per quanto si voglia dire, si fa soprattutto sui libri e in autonomia, nel chiuso di una stanza. La gente semplice, in cambio di poco, ha finito così per rinunciare anche alla cosa più importante che possedeva, per intuito o esperienza: il buon senso.
Certo, oggi non si può non tenere conto delle moderne modalità di comunicazione di massa del pensiero, e di tanti altri elementi legati al nostro tempo. Ritengo, tuttavia, che gli uomini di pensiero dovrebbero aiutare anche a tener ben vivo lo spirito della cultura vera.
Ovviamente, io sto qui considerando solo un aspetto della questione, ma, nell’attuale dibattito sull’incompetenza, mi sembra che sia assente. Credo che tenerlo presente ci porterebbe non solo ad avere una visione più completa del problema, ma anche ad evitare accuratamente che la retorica sull’incompetenza sia fatta propria, come sta avvenendo, dai principali responsabili della situazione in atto.