Dagli anni Settanta, hanno preso il via numerosi modelli di partecipazione politica di formazioni islamiche, il cui scopo è l’applicazione alla vita sociale della shari’a, ovvero di concetti coranici, nonostante il testo sacro non includa categorie sulla configurazione o amministrazione dello stato, e fornisca solo indicazioni di giurisprudenza o principi generali, fra cui quello della consultazione negato da tanti assolutismi contemporanei. La sua traslazione istituzionale risponde pertanto a componenti affatto religiose – quali contesto, interessi di gruppi, mentalità di singoli, e apparati autoritari ne interpretano i versetti nella direzione a loro più conveniente, magari con la predisposizione di una polizia ad hoc, come in Arabia Saudita, per vigilare che le persone adempiano all’obbligo della preghiera. L’islam politico è stato quindi minato da pulsioni centralizzatrici e fondamentaliste, alimentando ambiguità, e provocando un corto circuito tra le libertà personali e la sfera etico-spirituale. La definizione ha poi inquadrato compagini estremiste violente che hanno esplicitato programmi per la concrezione dell’islam a livello politico.
Una delle sue pietre miliari è stata la rivoluzione iraniana del 1979, con l’ascesa del pensiero dell’ayatollah Khomeini, per il quale “L’islam o è politica o non è nulla”. Nell’universo arabo convivono approcci diversi. I Fratelli Musulmani, per esempio, rivelano un’ampia gamma di sfumature, da un paese all’altro e all’interno degli stessi. In Tunisia, propendono all’accettazione delle regole dell’alternanza; in Egitto e Giordania, manifestano atteggiamenti tradizionalisti e intolleranti; in Marocco, si mostrano come moderati conservatori; in Turchia, si è imposto uno schema reazionario. Tuttavia, Sayyid Qutb, personalità chiave dell’islamismo radicale, che si oppone con decisione alla democrazia, è il riferimento teorico-ideologico sia per la fratellanza sia per le fazioni armate.
Sebbene la comunità occidentale asserisca che le relazioni internazionali siano stabilite sulla base della condicio sine qua non dell’adempienza ai diritti umani, ha agito adoperando il metro del proprio vantaggio, senza altro criterio per la valutazione del fenomeno e i suoi effetti, appoggiando realtà anche contrapposte, a seconda di cangianti circostanze, così aggravando un quadro di per sé complicato. Nella corrente congiuntura, fra la parabola claudicante della primavera araba, la persistenza di regimi dispotici, e il dilagare del terrorismo jihadista, il rapporto fra islam politico e democrazia rimane acceso. Se le tensioni in Egitto e Turchia, e la guerra in Siria, hanno riportato il tema al centro del dibattito globale, in questi giorni, i risultati delle elezioni in Libano e in Tunisia lasciano spazio a speculazioni sul rischio di possibili scenari.
In particolare, in Libano, hezbollah, stato nello stato di ispirazione islamica, finanziato da Iran e Siria, di cui una risoluzione dell’Onu richiede la smobilitazione, ha guadagnato terreno sul governo di Hariri, considerato inefficace nel sovrintendere la guerra siriana dall’elettorato e filo-saudita da parte iraniana. L’irrobustita presenza di hezbollah nell’esecutivo, non solo potrebbe amplificare il conflitto regionale per procura tra Arabia Saudita e Iran, ma aggroviglia la matassa in Siria, e fomenta la bellicosità di Israele, che identifica in Beirut la capitale della resistenza palestinese – la notte scorsa l’esercito israeliano ha colpito cinquanta postazioni iraniane in Siria dopo che la forza Al-Quds di Teheran aveva lanciato venti razzi verso la prima linea israeliana sulle alture del Golan (leggi Medio Oriente, il ruolo di Arabia Saudita, Iran e Stati Uniti e L’Iran fra giochi di palazzo e cambio generazionale). Per sfuggire alla perpetuazione di una cassa di risonanza di questa portata geopolitica, e benché hezbollah non abbia intenzione di rovesciare la coalizione inter-confessionale creata da Hariri, la plutocrazia al timone dovrebbe cominciare a riflettere in termini di visione politica più che di forzato bilanciamento tra affiliazioni religiose.
Senza un discostamento dalla premessa dell’attuazione della parola divina, non si potranno costruire stati legittimati dalle scelte dei cittadini. I fallimenti sinora registrati riconducono al non aver saputo forgiare né una cultura religiosa inclusiva dei diritti umani, né una cultura democratica rispettosa della dialettica pluralista, né tantomeno una totale rinuncia alla violenza. Del resto, molteplici fattori sembrano giocare a sfavore dell’islam politico, dall’insolvenza nella gestione degli affari nazionali e la prassi dell’esercizio del potere, alla crescita del dissenso al progetto dello “stato clericale” e la ferma posizione della società civile sulla questione della democrazia. La capacità di convogliare consenso dei partiti islamici, attraverso un’organizzazione capillare e assistenza a settori disagiati, non si è accompagnata a un operato adeguato alle attese. In qualche caso, si aggiunge poi il mancato controllo dell’esercito, che si è schierato con le aspirazioni popolari.
Alcuni analisti sono convinti che l’islam politico, esaurita la sua spinta, si trovi in una situazione stagnante. Altri credono che la spiegazione di un certo indietreggiamento vada invece ricercata nella persistenza di disequilibri e crisi interne. Un cambio tattico, insomma, che non divergerebbe dall’obiettivo. Pur se è evidente che nell’estenuante tentativo di adattare la modernità ai precetti della religione, si è inibita la naturale evoluzione delle strutture sociali, ostaggio di una dottrina incapace di incontrare il mondo, la soluzione non è debellare l’islam politico o secolarizzare i paesi islamici; piuttosto, far progredire la cultura politica in senso liberale e democratico, evitando qualsivoglia sensazione di assedio, facilitando dialogo e confronto, e ricordando il tempo richiesto dal processo di laicizzazione del “cristianesimo politico”.
La semantica ha già dato un passo, spostandosi da islam politico a “democrazia musulmana” nelle parole di Rachid Ghannouch, leader del partito tunisino Ennahda – del resto in Europa i cristiano-democratici ci sono sempre stati. Aldilà di retorica e opportunismo, è stata la società civile un po’ ovunque in Medio Oriente, con preponderanza di giovani e donne, e specialmente in Iran negli ultimi anni, a dare prova di coraggio, sostituendo l’idea di “islamizzazione” con quella di “religiosità”, e suggerendo che se la spiritualità può alimentare i valori, la politica e la legislazione devono sottomettersi alla razionalità pubblica.
Esperta internazionale in inclusione sociale, diversità culturale, equità e sviluppo, con un’ampia esperienza sul campo, in diverse aree geostrategiche, e in contesti di emergenza, conflitto e post-conflitto. In qualità di funzionaria senior delle Nazioni Unite, ha diretto interventi multidimensionali, fra gli altri, negli scenari del Chiapas, il Guatemala, il Kosovo e la Libia. Con l’incarico di manager alla Banca Interamericana di Sviluppo a Washington DC, ha gestito operazioni in ventisei stati membri, includendo realtà complesse come il Brasile, la Colombia e Haiti. Ha conseguito un Master in Business Administration (MBA) negli Stati Uniti, con specializzazione in knowledge management e knowledge for development. Senior Fellow dell’Università Nazionale Interculturale dell’Amazzonia in Perù, svolge attività di ricerca e docenza in teoria e politica della conoscenza, applicata allo sviluppo socioeconomico. Analista di politica estera per testate giornalistiche. Responsabile degli affari esteri ed europei dell’associazione di cultura politica Liberi Cittadini. Membro del comitato scientifico della Fondazione Einaudi, area relazioni internazionali. Ha impartito conferenze, e lezioni accademiche, in venti paesi del mondo, su migrazioni, protezione dei rifugiati, parità di genere, questioni etniche, diritti umani, pace, sviluppo, cooperazione, e buon governo. Autrice di libri e manuali pubblicati dall’Onu. Scrive il blog di geopolitica “Il Toro e la Bambina”.